La lettera di un’infermiera dal reparto Covid19

La lettera di un’infermiera dal reparto Covid19. L’appello è stato condiviso da Italianway, azienda leader in Italia degli affitti brevi (settore che a Milano sta conoscendo interessanti iniziative), che ha aderito alla campagna #stateacasanostra lanciata dagli operatori dell’accoglienza.  E ha raccolto la lettera di un’infermiera dal reparto Covid19.

Ecco la lettera di un’infermiera dal reparto Covid19:

“Oggi mi sono accorta che è ormai un mese che lavoro in un reparto Covid. Da quando è iniziata questa pandemia sto ricevendo tantissime chiamate, messaggi di incoraggiamento, di ringraziamento e tanti di preoccupazione… Perché si, fuori ci sono tante persone preoccupate e impaurite, e allora mi scrivono per sapere qual è la realtà e se ciò che vedono in tv è davvero reale, o forse mi scrivono perché vorrebbero sentirsi dire che è tutta una finzione, che sono tutte montature e che i media stanno esagerando… Io invito tutti ad essere prudenti, perché il Covid non risparmia nessuno. Non ha risparmiato neanche Giada, 55 anni più o meno come mia madre, milanese con tre figli della mia età. Anche Giada, come la maggior parte di questi pazienti, non sa come ha contratto il virus; lo chiama “il mostriciattolo” e all’inizio io non riuscivo nemmeno a capire quello che cercava di dirmi per via della sua voce rauca: faceva tanta fatica perché ha avuto un tubo in gola per ben 20 giorni ed era collegata ad un ventilatore. Da 4 giorni è stata estubata e oggi mi ha chiesto di farle lo shampoo e pettinarle i capelli: ma io non ho tempo, e poi fuori sta arrivando un altro ricovero urgente dal PS; lei ha gli occhi lucidi mentre me lo chiede e allora capisco che è importante e le prometto che il giorno dopo glielo avrei fatto! Il giorno dopo rinuncio alla mia pausa, perché durante il turno ci alterniamo facendo delle pause di circa 30 minuti: è difficile rimanere per tante ore con tutta quella roba addosso, impieghiamo almeno 15 minuti a mettere tutto e 15 a toglierli, quindi la pausa corrisponde solo a svestirsi, bere, andare in bagno e rientrare. Indossiamo una cuffia per i capelli, una tuta dalla testa ai piedi (con un cappuccio), una mascherina strettissima, ben aderente al viso e una visiera, tutto con sotto la nostra divisa e si suda tantissimo e ogni volta ti sembra di non riuscire a respirare, come se ti mancasse l’aria, ma non puoi far nulla. Quindi fare la pausa anche di soli 5 minuti è davvero vitale per noi, ma quel giorno ho deciso di fare un piccolo sacrificio. Ho aiutato Giada a mettersi seduta, perché dopo tanti giorni che è rimasta intubata immobile, ora non riesce a muovere bene gli arti, e quindi non riesce più neanche a mettersi seduta a letto e così inizio a lavarle i capelli. Quando entro nella sua stanza lei mi riconosce subito e ricorda anche il mio nome “ti riconosco anche solo dagli occhi, hai degli occhi bellissimi, come Bamby”, mi dice sempre. Ha i capelli pieni di nodi (pensate a cosa significhi non lavare e pettinare i capelli per ben 25 giorni), ci ho messo molto tempo a pettinarglieli ma quel tempo ci è servito molto. Lei ha avuto il coraggio di chiedermi che giorno fosse e in quale ospedale si trovasse, non sapeva ancora nulla di tutto ciò che stava accadendo fuori e mi ha confessato che non lo aveva mai chiesto perché se ne vergognava, ed io non ho avuto il coraggio di dirglielo, le ho solo detto la data e che la primavera inizia a farsi sentire. Alla fine mi sono resa conto che il tempo è volato ed io ho altri 5 pazienti da controllare, dovevo uscire, ma Giada mi ha accarezzato la visiera e con le lacrime agli occhi mi ha chiesto di aiutarla a chiamare sua figlia, vuole sapere come sta e vorrebbe anche salutare il suo nipotino. Così prendo il tablet ed il numero della figlia e la chiamiamo. Quella chiamata è stata davvero toccante, Giada con tutta la sua paura, il suo disorientamento e i suoi dubbi è stata la persona più forte in quel momento, ha trasmesso tanta forza alla figlia e a me, le ha detto che sarebbe tornata presto a casa e nonostante lei stesse male continuava a chiederle di parenti e amici. E la figlia le rispondeva tra una lacrima e un sorriso, e le continuava a ripetere quanto le volesse bene e quanto le mancasse. Ed io sono rimasta lì tutto il tempo a tenerle il tablet e a cercare di tradurre le parole di Giada, perché lei non riesce a reggerlo da sola, ed io ho pianto, tanto, senza la possibilità di asciugarmi le lacrime perché non posso toccarmi gli occhi, ed ho solo immaginato cosa potesse significare per una figlia non vedere la mamma che sta male per ben 25 giorni , non sentire la sua voce e fidarsi solo della voce di degli sconosciuti che due volte a settimana ti chiamano e cercano di darti delle notizie più o meno sufficienti. Mentre stavo ancora piangendo, abbiamo dovuto interrompere quella videochiamata perché fuori da quella stanza c’era un’urgenza, un paziente doveva essere intubato ed io dovevo andare; “non ho neanche il tempo di piangere” ho pensato, e così con le lacrime sotto quella visiera che mi offuscavano ancora di più la vista, sono uscita ed ho dovuto dimenticare per quell’attimo Giada, per concentrarmi su Marco, il ragazzo da intubare. Racconto questa storia per far capire cosa stiamo vivendo noi chiusi in trincea e cosa stanno vivendo i nostri pazienti. È come essere in una grande bolla, dove non esiste il mondo esterno, dove si combatte ogni secondo, dove tutti ci stanno chiedendo tantissimo: dobbiamo stare attenti a non infettarci, attenti a come ci svestiamo, dobbiamo saper gestire un’urgenza dopo l’altra, ma allo stesso tempo dobbiamo trovare il tempo per chiacchierare con i nostri pazienti, dobbiamo ascoltare le loro paure e tranquillizzarli, ci ritroviamo sempre più spesso a gestire crisi d’ansia o attacchi di panico che non fanno altro che peggiorare la loro situazione respiratoria. Siamo tutti sotto stress. E poi non dimentichiamoci che fuori anche noi abbiamo, o forse dovremmo avere una vita, siamo preoccupati per le nostre famiglie, per i nostri cari, abbiamo tanta paura, paura di ammalarci. E non dimentichiamo che viviamo da soli e io non finirò mai di ringraziare Italianway e il proprietario della casa in cui mi sono trasferita dal 16 marzo per questa preziosa possibilità; sì, quando non siamo a lavoro, siamo a casa da soli, perché siamo considerati “untori” e quindi siamo “un rischio” di contagio.

E fuori c’è ancora gente che si dispera per questa quarantena, perché il loro più grande problema è non poter festeggiare la pasquetta, non poter andare al parco o in palestra, perché è costretta a prendere il sole in terrazzo, perché non può uscire a fare gli aperitivi con gli amici, perché c’è troppa fila all’Esselunga… Ed è a tutta questa gente che vorrei raccontare la storia di Giada e ciò che noi ogni giorno viviamo e vorrei far capire che in questo momento chi può stare in casa con i propri cari deve solo esser felice”.

Nella foto, Marco Celani

La lettera di un’infermiera dal reparto Covid19 nasce dall’iniziativa si sostengo ai sanitari che ha anche una forte impronta meneghina come spiega Marco Celani, AD Italianway: “Sui 250 immobili messi a disposizione, 90 sono gestiti da Italianway a Milano; su 100 medici e infermieri accolti, 30 sono nelle nostre case di Milano ed hanno accolto con sollievo la notizia della proroga dell’iniziativa. Ci é sembrato doveroso estendere questa iniziativa di solidarietà fino alla fine del mese di aprile perché siamo ben consapevoli che sarà lunga e ognuno deve fare la sua parte, rispetto al settore in cui opera: la politica, le imprese, i cittadini. Come Italianway siamo felici di contribuire concretamente al benessere del personale sanitario italiano; la nostra reazione è stata tempestiva e ben organizzata come è doveroso che sia nelle emergenze. E le mail di ringraziamento dei medici e degli infermieri che ci scrivono raccontandoci del sollievo di tornare in una casa accogliente e sanificata dopo turni massacranti in ospedale e senza temere di contagiare i propri familiari, sono per noi e per tutti i proprietari Italianway motivo di grandissima soddisfazione”.