E’ davvero da demolire il modello educativo italiano?

E' davvero da demolire il modello educativo italiano?Anch’io, nella mia lunga esperienza di insegnante di lettere nel liceo, ho potuto toccare con mano la crescente difficoltà dei ragazzi nell’esercizio della lettura e nelle capacità di scrittura, che in un contesto non liceale a quanto leggo deve aver assunto proporzioni drammatiche. I risultati delle prove Invalsi da questo punto di vista parlano chiaro, benché ad abbassarli rispetto agli standard medi europei siano soprattutto realtà del nostro territorio di difficile scolarizzazione.

Dal Corriere ho letto di recente la proposta di un mio collega di lettere, il quale sostiene che, per fare argine a questa crescente atrofia nelle competenze linguistiche, bisognerebbe per prima cosa liberarsi di gente come Manzoni, la cui prosa sarebbe talmente ostica da dover essere “decifrata”. Ha forse omesso di scrivere che per capire i Promessi Sposi basterebbe in fondo un testo corredato di note, nemmeno tante peraltro (spiegando ad esempio che una “cantonata” era l’angolo di un edificio). Dev’essergli anche sfuggito che, a questa stregua, dovremmo depennare autori più recenti ma per gli allievi ben più ostici di Manzoni, come Pavese, per non parlare di Gadda e di tanta altra narrativa del secondo dopoguerra…

Io vorrei affrontare il problema in modo altrettanto provocatorio ma in termini simmetricamente opposti, cominciando a chiedere che cosa vogliamo fare, da oggi, della nostra lingua. Questa ha sempre avuto delle precise specificità: è una lingua complessa, fortemente strutturata. La nostra scuola tradizionale difendeva queste peculiarità, anche nella convinzione che lo stesso pensiero necessiti di complessità e struttura. Non sono mancate in Italia fasi storiche di forte accelerazione linguistica: ad esempio il primo Novecento, se da una parte ha reso più dinamica la sintassi, dall’altra ha arricchito l’italiano di arditi neologismi che oggi sono diventati di uso corrente. Mi chiedo invece se sia lecito parlare di evoluzione dell’italiano per questi ultimi tempi, in cui l’inglese – o piuttosto l’“inglesese” globale che ne ha raccolto l’eredità – subentra quasi quotidianamente all’italiano perfino nel lessico politico e istituzionale (sorvoliamo poi su quello educativo). Io credo proprio di no: l’italiano ha smesso di crescere e pare vergognarsi di se stesso, e io non scaricherei le colpe di quanto accaduto su Steve Jobs e nemmeno su Chiara Ferragni, ma, esclusivamente, sulle politiche della scuola; a cominciare da chi le vuole orientare impedendo a questa disciplina di misurarsi con i modelli del passato, a partire da Dante, e di mettere i futuri adulti nella condizione di competere con questi modelli. Va da sé che non potrai mai competere con ciò che non ti fanno conoscere. I disastri comunque vengono da lontano e si vedono già nella prima fase scolare: aumentano a dismisura i quattordicenni grammaticalmente analfabeti, incapaci perfino di mano-scrivere, di usare il corsivo: queste competenze infatti, onestamente impegnative, che dovrebbero acquisirsi nei primi anni, confliggono spesso con gli inflazionati “bisogni affettivi” dell’alunno (che sono sacrosanti, ma cosa c’entra un dettato?) e la troppo abusata retorica dell’“inclusione”, che costringono insegnanti anche validi a ridimensionare gli obiettivi disciplinari.

Io continuo a chiedermi per quale motivo si tende a riconoscere i meriti della riforma Gentile del 1923 ma, invece di sforzarsi di adattare i suoi nuclei fondanti alle esigenze dei nuovi tempi, ogni anno si lavora sistematicamente per smantellarla pezzo dopo pezzo. Oltre all’arrendevolezza di fronte alla scommessa di trasmettere la complessità della nostra lingua, un altro cardine della scuola gentiliana è venuto meno: la centralità della conoscenza come prerequisito per saperla sfruttare nella vita in ogni ambito, un concetto erede del motto (antiquato?) rem tene verba sequentur, o anche del principio (antiquato?) secondo cui è la conoscenza che rende liberi. Resta inteso che è importante diventare un bravo esecutore, meglio ancora però se critico e consapevole. Anni fa l’avvento di internet aveva entusiasmato tanti insegnanti come me, proprio perché si era proposto, e si propone tuttora, come uno straordinario moltiplicatore di conoscenze. Proprio nel momento in cui si poteva sfruttare questa opportunità a beneficio dei futuri nativi digitali, la voce “conoscenza” è stata nei fatti marginalizzata. Un esempio per tutti: la storia antica, che ha appassionato tante generazioni di bambini e adolescenti italiani, è stata quasi espunta dai programmi dei primi 8 anni e sopravvive nel biennio successivo insieme all’altra cenerentola, la geografia, in quella sorta di sgabuzzino del monte-ore chiamato geo-storia. E questa lacuna non è tanto grave per questioni “identitarie” (io sento personalmente le mie origini greco-romane, ma non pretendo di imporle a un mio collega di lettere), ma proprio perché la storia antica rappresentava il primo momento, sotto forma di racconto, di formazione politica per un allievo, mentre l’attenzione ossessiva all’attualità (lo aveva intuito anche Quintiliano) rischia di disorientare, soprattutto in assenza di retroterra. E poi, mi si perdoni una parentesi sarcastica, da quando prolifera il mantra del “saper fare”, i colleghi di matematica quando li incrocio al cambio d’ora si chiedono spesso imprecando se molti neo-liceali abbiano mai usato in vita loro un pallottoliere: sarà forse che la parola “competenza” porta male…

La vecchia riforma Gentile non sono le tavole della legge, era figlia di quei tempi, come dimostra il suo rigido impianto classista: d’altronde, una volta stabilita la scuola dell’obbligo fino a 14 anni, considerando il tasso di analfabetismo che ancora nel ’21 sfiorava il 40% e una percentuale ancora più elevata di cittadini semianalfabeti, si cercava di ostacolare per quanto possibile l’accesso immediato agli uffici pubblici di giovani cresciuti in ambienti unicamente dialettofoni. Ma Gentile allo stesso tempo fornì in cambio alle classi subalterne gli strumenti per conseguire l’emancipazione culturale (è forse un caso che questa scuola abbia cresciuto coloro che avrebbero sovvertito l’ordine politico a cui il filosofo siciliano aveva dato la sua adesione?). E lo fece privilegiando – per tutti – la Cultura, il sapere, in aperto contrasto con la positivistica divisione settoriale dei “saperi”. Oggi, per fare un esempio, può apparire inverosimile, ad alcuni probabilmente ridicolo, che a quei tempi fosse stato introdotto l’insegnamento del latino perfino nei 4 anni dell’istituto tecnico (con 7 ore settimanali nel primo biennio, 6 nel secondo biennio!), e la netta prevalenza in quell’indirizzo delle discipline umanistiche rispetto a quelle tecniche . Anacronistico? Eppure la generazione formatasi sotto Gentile ha poi mostrato di saper rispondere egregiamente alle sfide della moderna economia nei decenni successivi alla guerra, facendo dell’Italia una potenza economica. Ha visto anche annoverare al suo interno importanti premi Nobel in ambito scientifico. Quanti ne promette la nuova scuola delle skills?

Luigino Picini