Una partita giocata fuori campo

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Una partita giocata fuori campo. Nella Milano che si proietta verso il futuro con la stessa velocità con cui corre sui binari della sua nuova Metropolitana 4, si apre un nuovo atto che ha tutto il sapore di una commedia all’italiana, ma con risvolti che paiono tratti da un dramma shakespeariano. Al centro della scena, lo storico Stadio di San Siro, o Giuseppe Meazza per i puristi, e un’idea che solleva più di un sopracciglio: venderlo alle squadre del Milan e dell’Inter, con l’accordo che ne sostengano i costi di ristrutturazione. Il Sindaco Giuseppe Sala, regista di questa manovra, sembra aver calato il sipario su ogni remora, proponendo un affare che a molti suonerebbe come una resa piuttosto che come una trattativa. In cambio, le gloriosi squadre meneghine dovrebbero rinnovare l’arena a proprie spese, promessa che risuona come un eco nelle vuote stanze delle casse comunali. Ma la trama si infittisce quando entra in scena Webuild, lo stesso colosso che ha costruito a linea M4 della metropolitana. L’offerta di progettare il nuovo stadio sembra una mossa logica, un passo naturale per una società che ha già dimostrato di poter trasformare la visione in realtà. Tuttavia, non si può fare a meno di chiedersi: siamo davvero di fronte a un’opera di puro mecenatismo aziendale, o c’è sotto qualcosa di più? La questione si complica se si considera che lo stadio, oltre a essere un luogo dove si giocano partite di calcio, è anche un pezzo di storia milanese, un punto di riferimento affettivo per molti cittadini e un bene pubblico di inestimabile valore sociale. La sua cessione sembra quasi un regalo, un lascito generoso a due entità private che, per quanto legate indissolubilmente alla città, operano secondo logiche di profitto.

Non ci vuole un critico d’arte per notare le ombre in questo quadro. Si potrebbe quasi parlare di una sorta di “baratto culturale”, in cui la memoria e l’identità di una città vengono scambiate con la promessa di un rinnovamento architettonico e funzionale. Ma a quale prezzo? E per chi?

Queste domande non sono retoriche, ma piuttosto il tentativo di penetrare la nebbia di un affare che sembra troppo bello per essere vero. In una città che ha sempre saputo rinnovarsi, preservando gelosamente il proprio patrimonio storico e culturale, la vicenda dello stadio di San Siro sembra un’anomalia, un pezzo del puzzle che non trova la sua collocazione.

Milano merita trasparenza, così come i suoi cittadini, che guardano a San Siro non solo come a un tempio del calcio, ma anche come a un simbolo della loro città. È quindi legittimo chiedersi se, in questo intreccio di affari e interessi, non si stia perdendo di vista l’essenza stessa di ciò che rende un bene pubblico tale: la sua appartenenza alla comunità e il suo valore inestimabile che trascende il mero calcolo economico.

In conclusione, la partita per il futuro di San Siro è ancora tutta da giocare, e come in ogni buon incontro che si rispetti, sarà il campo – in questo caso, quello dell’etica e della trasparenza – a decidere il vincitore. Resta da vedere se i tifosi di questa città saranno semplici