Romanzo elettorale capitolino, extended

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Romanzo elettorale capitolino, extended. Se Craxi era pericolo per la democrazia, ora Raggi è minaccia per Roma

Prima parte
Meno eletti decidi e più ne hai
Allarme, siam romani
Il sudario di Mafia Capitale
Sorella Meloni
Incapacità grillina
Raggi stretti a denti stretti
Strategie di odiatori

Intanto smottamenti a ripetizione in casa grillina. 5 donne, fuoriuscite dai 5s dell’aula Giulio Cesare (Grancio con i socialisti, Ficcardi con i Verdi e Montella, Catini e Guerrini nel misto) hanno tolto a Virginia la maggioranza presieduta da un altro nemico, quell’ex grillino di De Vito, già primo candidato sindaco degli indignati poi presidente dell’assemblea capitolina, tornato, dopo essere stato arrestato e scaricato, a lanciare Crea Movimento. Altri 4 consiglieri (Stefàno, Sturni, Terranova Guerrini e la Iorio) stanno uscendo. Fuori dall’aula, c’è la Lozzi, presidente del settimo municipio che si candiderà con Rivoluzione Civica; c’è la vicepresidente del Senato Taverna, periferica romana che accusò di complotto l’elezione della Raggi. Contare solo su 24 o 20 consiglieri capitolini (inclusa se stessa) non è così grave; in Regione Zingaretti è stato sempre in minoranza fintanto che la 5s Lombardi non è entrata al governo con la transizione ecologica. Il problema di Virginia è che ora il suo ex referente politico è assessore di un governatore che la taccia di essere una minaccia per Roma. La strana alleanza di democratici, fratelli, leghisti e metà grillini raccolgono le firme per sfiduciarla e chiudere l’ipotesi di una sua candidatura sempre sulle mine. L’esito sarebbe disastroso in ogni caso per i grillini. Non a caso si prevede il 12% per l’eventuale pasionario Di Battista sopra la Raggi al 10%, nel sostanziale dimezzamento dei voti. L’animo, rosicone, negativo, rancoroso, piagnone, opportunista, indignato, risarcitorio, inconcludente, complottista, della secolare plebe, del Coatto Re deve trovarsi un altro lido.
Rane gonfie
Intanto sondaggi e talk alimentano il gonfiar di rane inconcludenti. Scambiano visibilità televisiva per forza elettorale e alimentano l’ambizione smisurata e inconcludente dei Gualtieri, lo storico prestato all’Economia del governo Conte bis valutato un 18,5% e dato per vincente a marzo dal giornale Domani; e dei Calenda di Azione e di Italia Viva, valutato un 20% ed un 14,3%. Nessuno bada che il suo partito stia al 3%. I democratici, dopo essersi baloccati con l’indicazione dall’alto di Zingaretti, tornano alla farsa delle primarie; contro Gualtieri, il nipote del monumento ebraico Zevi, un uomo di Sant’Egidio, un marinista ed una ex grillina; giusto a confermare le colonne di sostegno. Poi c’è Fassina reduce del mondo allo sbando di Leu, scomparso tra Sinistra e Articolo uno, i cui cocci saranno alleati ma non organici del Pd.
Pourpourri alla romana
E’ tutto un pourpourrì di nomi noti ed eccellenti, Bertolaso, Zingaretti, Raggi, Calenda, Fassina, Gualtieri, Di Battista, Zevi, Sassoli, Sgarbi di Rinascimento, all’ultimo Gasparri. I produttori tv ci mettono anche Rampelli, sottolineando però che non lo conosce quasi nessuno. L’avrebbero detto anche per Lenin nel ’17. Non c’è neanche una new donna celebre (a riprova dell’intelligenza femminile). Si fanno i tornei
includendo i noncandidato sindaco e quello che non vuole candidarsi. Bertolaso batte Raggi e Gualtieri (54,3 a 45,7) ma perde con Zingaretti e Calenda. Gualtieri batte Raggi, Calenda e Abodi; Calenda batte Raggi e Abodi; Sassoli batte Bertolaso; Raggi batte Calenda e Apodi (chi era costui?). Trascurabili le partecipazioni dei Bedini di Rifondazione Comunista e Potere al Popolo (qualcuno ricorda che bloccò lo stadio della Roma); del ventenne starter Lobuono de La Giovane Roma, lista di ragazzi under 25 con due start up all’attivo e di Bernaudo dei Liberisti Italiani, riesumato dalla partecipazione al governo regionale della sindacalista Polverini, franato sul Fiorin fiorito. Saranno comunque decine fino al centinaio le micro formazioni di sostegno alle varie coalizioni. I pensionati stessi si presenteranno come moribondi pensionati,
quarantenni pensionati e pensionati semplici.
Neo marino marziano
Le elezioni romane sono lontane. Da qui a ottobre, la Raggi, commissariata, senza maggioranza, sfiduciata, bombardata dalla lite interna, locale e nazionale dei pentastellati, chissà se riuscirà a candidarsi. Chiunque ci sarà, forse la polverizzazione dei 5s si accelererà; finora dal 35% al 17% al 14,5, finirà tra 10% e 5%. Nei mesi sarà sempre più evidente l’inconsistenza del mite Gualtiero, né carne, né pesce. Presumibile che sul piano del voto lo surclasserà anche lo sconosciuto Rampelli, un politico temprato di territorio. Anche il Pd passato a Roma dal 30% al 27% al 24% sta scivolando sempre più in basso, con una segreteria nuova che ha già incassato sconfitte ed una piazza irata da alleanze contro natura. Calenda servirà a poco ma tutto fatto per danneggiare il ridente Gualtiero che nella migliore delle ipotesi sembra un marziano Marino peggiorato. Alle Fratte si considera già realistica l’ipotesi di arrivare terzi e si confida nella tenuta, se non dei
rossi, dei gialli. Ci potrebbero essere entrambi e nemmeno il ballottaggio.

Il silenzio d’oro della destra
Il silenzio sui candidati ha finora agevolato la crescita a destra che senza esagerare ha accennato a scelte civiche come il manager Abodi o la giudice Matone. E’ chiaro già oggi, ma detto solo sottovoce, che la destra unita supera il centrosinistra di ca. 5 punti, 42% a quasi 37%. Nei mesi che verranno con le accuse crescenti sulla gestione dell’epidemia ed il crollo economico, il divario si farà incolmabile. L’unica chance
che ha la sinistra è la candidatura per il centrodestra delle facce bollite della Forza Italia romana, in particolare del postfiniano Gasparri, che in genere si trincera dietro banali frasi comiziali di circostanza. Assieme alla sinistra, è grandissima la responsabilità di questa destra, apparentemente moderata, di avere fatto della politica romana un deserto; si pensi al coordinatore Bordoni passato da Fi alla Lega senza che se ne accorgesse nessuno. Sarebbe stata l’occasione del compianto Diaconale; potrebbe esserla per Sangiuliano, direttore TgRai2. Tutte le teste valide, senza un mondo economico che si impegna più, senza corti chiuse a riccio, non ci provano nemmeno.
Sindaca Meloni
D’altronde da Moffa in poi è chiaro che a Roma solo la destra più storica può mobilitare la piazza e vincere; l’incrocio di indignazione e voglia d’ordine. E stavolta per il primato si batteranno la destra autoctona e quella nordica, entrambe al 20% a livello nazionale. Il rapporto tra voto ai partiti ed al candidato è dettato dalla fiducia e dalla sintonia. Con l’impaccio di ascendenze ingombrati, sono necessarie puntualità e
concretezza per questioni che tocchino i ceti più popolari. Se la Meloni, romana di Garbatella, l’ultima volta sviluppò il 12,3% di Fratelli d’Italia in un personale 20,6%, questa volta potrebbe straripare partendo dal 22% da cui parte il partito e dal 42% complessivo della destra. Il discorso si farebbe contrario invece con Gasparri.
1287 kmq
La leader dei Fratelli non vuole farsi macerare dall’incarico tremendo e di lungo periodico di sindaco capitolino, convinta che finirebbe bersaglio della giustizia secondo un copione antico; lupus in fabula, già ora è spuntata l’accusa di un pentito. Durante il mandato non le basterebbe lamentare la striminzita cifra di 500 milioni del Pnrr per la Capitale, ma se riuscisse invece a realizzare l’autonomia costituzionale dell’Urbe, superando in volata Lombardia e Veneto, consoliderebbe il primato non previsto e sorprendente a destra. Dovrebbe usare i termovalorizzatori e gli sfollagente contro i comitati contrari; e porre una ricostruzione amministrativa con un vero piano regolatore per i mostruosi e ingestibili 1.287 mq di Roma, dodici e sette volte più grandi di Napoli e Milano (119 e 181 kmq), quando la popolazione è solo doppia della milanese e tripla della napoletana. Nel caso si candidasse Giorgia, a sinistra non ci sarebbero primarie che contano e
tornerebbe in extremis Zingaretti sempre che il pacioso governatore non lo reputasse fosse troppo rischioso
Cdu italiana
La Lega è cresciuta sul modello Front national della Le Pen, poi abbandonato per il sostegno al grande commis garante dei finanziamenti europei. Crosetto, forse la testa più lucida di tutta la destra, accosta invece i Fratelli alla Cdu tedesca, conservazione pura, che noiosamente ripete e sostiene sempre le stesse cose, senza bisogno di grandi cambi di stagione. Lo spesso irriso slogan, ripetuto da un partito sostanzialmente laico Dio, Patria, Famiglia significa il credo in regole immutabili rette da un ordine Superiore e naturale, l’indipendenza nazionale anche nella globalizzazione, il sostegno alla rete familiare tradizionale sopra le classi ed i ceti economici. Finora però anche se governa Abruzzo, Marche e Sicilia, Fdi non ha mai respirato a lungo l’aria rarefatta degli apici. Ad ottobre potrebbe trovarsi nella più alta Ara Coeli.

Giuseppe Mele