Editoriali

Immigrazione o umanità in fuga? Cosa si nasconde realmente dietro tale fenomeno?

di Biagio Maimone – Quando si difendono i diritti umani non ha senso essere considerati  buoni o “buonisti”, di destra o di sinistra, come fanno alcuni giornali ed alcuni partiti politici, in quanto è, senza alcun dubbio, un dovere di natura morale e spirituale difendere la dignità umana di chi diviene oggetto di sopraffazione e di ingiustizie. Tale dovere è certo che alberga nel cuore delle persone guidate dal senso di giustizia e dai sentimenti umani verso il prossimo e non può essere etichettato con definizioni partitiche. La vita è un dono, sia per i credenti di qualsivoglia religione, sia per chi non lo è: per tale ragione essa deve essere difesa da chiunque la minacci. Ogni essere umano non può che nutrire e manifestare il proprio anelito di miglioramento della propria esistenza quando essa è resa difficile dagli eventi della vita. E’ un diritto difendere la propria vita dall’ingiustizia sociale. Non si può negare che difendano il valore della propria vita tutti coloro i quali, su barconi insicuri, sfidando il mare, approdano nei porti della nostra nazione, per trovarvi accoglienza. Essi affermano di essere fuggiti dai loro territori di origine per evitare la schiavitù, la violenza e la morte. Ci chiedono di dar loro la vita. Non possiamo non accogliere il loro grido di dolore e tendere loro la mano.Essi chiedono di divenire cittadini di una terra che consenta loro una esistenza dignitosa, non più profughi ma cittadini. Colpiscono i bambini, i quali affrontano tante traversie con la forza che solo l’innocenza dell’infanzia sa donare. Essi ignorano l’esistenza dei muri, delle barriere, del razzismo. Che fare allora? Lasciamoli sognare e gioire del calore dell’accoglienza, tendendo loro le braccia. Facciamo in modo che lascino alle spalle quel mare tempestoso e le tragedie che pervadono le loro terre di origine. Diamo loro un domani colmo di speranza. Non possiamo, tuttavia, evitare di osservare il fenomeno dell’immigrazione con spirito critico, proprio in quanto si configura come un immenso movimento senza precedenti nella storia dell’umanità. Per tale motivo ci chiediamo: “Che cosa,  effettivamente, determina tale spaventoso fenomeno che,  impropriamente,  viene definito immigrazione , ma che sarebbe equo definire “umanità in fuga?”Si tratta solo di fuga dalla guerra, dalla violenza, dalla povertà? Certo è ancora presto per dare una risposta che, solo il corso della storia,  potrà fornire.

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Il reddito di cittadinanza? Una misura “palliativa” per i meridionali

di Biagio Maimone – Si può affermare, senza paura di essere smentiti, che la questione meridionale, oggetto di accesi dibattiti politici, nel corso di lunghi decenni, resta ancora aperta. Pagine di storia percorse dall’anelito all’unificazione di due territori, il Nord e il Sud Italia, espresso da eminenti politici, filosofi e storici , testimoniano una crepa mai risanata presente nella penisola italiana. Testimoniano, anche, da un lato, la lontananza dello Stato italiano dal Sud Italia, dall’altro, la responsabilità del popolo meridionale rispetto ad una presa di posizione incisiva relativamente al proprio sviluppo socio-economico, nonché politico. Pertanto, non si può negare che la questione meridionale interpelli le coscienze sia dello Stato italiano, sia del popolo meridionale, che ha dimostrato palese disinteresse rispetto alla propria emancipazione. Perché tanto disinteresse? Ad un’analisi approfondita di carattere storicistico tale disinteresse sembra non essere nato dal caso. Per comprendere il fenomeno nella sua profondità occorre domandarsi : ” A quale potere rispondeva il popolo meridionale ? Forse non allo Stato italiano ? Ed, inoltre, a chi chiedeva di essere rappresentato ? Forse non allo Stato italiano?”. Certamente, vi era e vi è un altro potere non manifesto a cui le popolazioni del Sud Italia facevano e fanno ancora oggi riferimento. E’ la cosiddetta “mafia”, se, in tal modo, vogliamo definire l’esistenza di un potere contrapposto allo Stato italiano, ossia quel potere che ha in mano le sorti del Sud Italia. Difatti, storicamente e politicamente, appare un paradosso che lo Stato italiano abbia lasciato l’Italia divisa in due, proprio in quanto la penisola italiana è troppo piccola. Dal sorgere della Costituzione italiana l’intento di secessione sembra avere il sopravvento sull’intento unificatore del Nord e del Sud Italia. Per alcuni le ragioni di tale divisione sembra possano ricercarsi nell’ambito delle diverse culture che sorreggono la mentalità del popolo del Nord rispetto al popolo del Sud, ossia il pragmatismo , la voglia di fare, l’impegno concreto del Nord contro una visione della realtà in termini di fatalismo, propria del Sud, che attribuisce la propria rappresentanza a soggetti il cui potere, senz’altro rilevante, non è formalizzato, ma agisce sotterraneamente in quanto ne trae benefici di immensa portata. Ma la mafia non è la mafia di alcuni anni fa. Neppure si può definire ancora mafia. Il potere occulto si è emancipato e vuole governare alla luce del sole in quanto ha raggiunto gli scranni del potere politico ed economico che è il vero potere. La mafia non esiste più, esiste il potere economico. Ciò non potrà non determinare un cambiamento storico senza precedenti che vedrà sorgere l’stanza di rendere paritaria l’economia del Nord e del Sud, di rendere omogenei il Settentrione ed il Meridione d’Italia, sia sul piano politico, sia sul piano economico. Ed ecco un nuovo impegno per lo Stato italiano: quello di rilanciare l’economia del Sud Italia. Tale impegno è indiscutibile che debba porre tra le azioni prioritarie la creazione di lavoro. Creare lavoro significa industrializzare il Sud Italia, ossia far nascere imprese o rendere proficuo allargare il proprio raggio di azione nei territori del Sud alle aziende già affermate nel Nord Italia, attraverso azioni mirate di incentivazione, che si potrà esplicare mediante una oculata politica di detassazione dei costi del lavoro. Il Sud Italia, difatti, si svilupperà solo creando lavoro. Lavorare, infatti, significa percepire un reddito che permette di affrontare le esigenze economiche primarie , nonché godere dei diritti connessi alla vita lavorativa,disciplinata da ben precise leggi dello Stato. Il lavoro, inoltre, permette lo sviluppo della personalità del cittadino, il suo inserimento a pieno titolo nel contesto sociale , la sua crescita professionale, la realizzazione dei suoi progetti di emancipazione. Il Sud Italia non vi è dubbio che possegga le carte in regola per recepire un progetto di industrializzazione che crea lavoro, grazie anche all’elevata scolarizzazione delle nuove generazioni che non accettano l’indolenza dei propri genitori , pervasi da una nuova cultura della vita. Essi accoglieranno e faranno propria la creatività dell’imprenditoria, che, calata nella realtà del Sud Italia, saprà generare una nuova visione della vita tale da superare la stasi in cui esso è immerso attualmente. Alla luce ditali riflessioni non si può ritenere il reddito di cittadinanza una misura finalizzata alla lotta alla povertà, proprio in quanto esso si configura come un esiguo aiuto temporaneo, di esigua consistenza. Esso, difatti, non crea lavoro, non sviluppa economia, non elimina, pertanto, la piaga della disoccupazione e, per tale motivazione, non mira allo sviluppo della personalità e della dignità umana. Occorre creare lavoro e non temporanei palliativi. I tempi sono maturi per il riscatto del Sud Italia in virtù del fatto che il processo di globalizzazione ha creato nuovi contesti , nuove dinamiche e nuovi spazi partecipativi, nei quali si inseriscono le popolazioni di tutto il mondo ed anche popolazioni, da sempre, vissute in terre depresse e molto povere. Anche il Sud Italia può introdursi in tali spazi innovativi e produttivi di benessere ,esplicando le proprie migliori energie, senza timore che qualcuno le possa reprimere per il proprio tornaconto personale ed il proprio personale arricchimento.  

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La rapina dei pezzenti nella città dei ricchi

La rapina dei pezzenti nella città dei ricchi. Le cronache ci riportano in modo singolare la rapina avvenuta nella filiale Ubi di via Washington. Una rapina molto singolare a dire il vero: non si emozionino i nostalgici dei tempi del bel Renè e amici. Nessun mitra, nessuna organizzazione perfetta, qualcosa di molto grezzo e rozzo, ma che pare aver funzionato. Primo aspetto: il rapinatore armato, perché le agenzie riportate da Corriere e Repubblica (anzi l’agenzia visto che è identica su entrambi i quotidiani) parlano di rapinatori “armati di un taglierino”, aveva appunto in mano un taglierino. Quindi i rapinatori lo usavano a turno o era uno solo. Secondo aspetto, non c’era nessun basista o informazioni raccolte con perizia: questa banda di ciucci non sapeva che la cassaforte fosse temporizzata ed ha quindi dovuto trasformarsi in una banda di sequestratori. Infatti per attendere l’apertura della cassaforte hanno sequestrato clienti e dipendenti fino allo sblocco. Terzo aspetto: non si sa quanto hanno portato via. Dubitiamo che sia perché le forze dell’ordine non vogliano enfatizzare l’accaduto: da parecchio tempo ormai le filiali tengono quantità minime di denaro, motivo per il quale bisogna avvertire se si intende prelevare più contante del normale. Per averne un esempio della limitata liquidità delle filiali ripescatevi la storia sulle finte associazioni sportive di Rcs che l’Osservatore vi ha raccontato. Ma torniamo alla nostra banda di pezzenti. Questa rapina sembra la dimostrazione di come due realtà si stiano sempre più staccando: da una parte ci sono le zone in cui vivono i ricchi con tutti i servizi pensabili, in alcune pare che la sicurezza sia persino stata appaltata ad ex(?) agenti del Mossad, dall’altra la Milano di cui non parla nessuno. Quella dei pezzenti, dove dominano le bande di disperati, dove le vittime della nuova onda di eroina vivono appena raccolto quanto serve nel centro città, dove gli anziani escono solo se estremamente necessario. Le zone dove insomma si organizzano anche le bande di pezzenti come quella della rapina di cui sopra. Rapinatori poveracci, tanto da avere solo un taglierino in un gruppo per minacciare le persone. Gente che va allo sbaraglio, aggiungendo il reato di sequestro di persona a quello di rapina a mano armata perché non si è organizzata. Sono i pezzenti di Milano, quelli a cui qualche migliaio di euro cambierebbe comunque la percezione delle vita, molto di più che qualche anno di galera. Sotto le torri scintillanti non ci sono solo i parchetti dove le famigliole di consulenti e dirigenti di multinazionali trascorrono ore felici, ma un’umanità sempre più varia e povera. Fucina del futuro, ma anche della rapina dei pezzenti nella città dei ricchi. Speriamo solo che Sala “l’onesto” e gli altri potenti se ne ricordino mentre organizzano l’ennesimo grande progetto. Anche da una rapina di pezzenti si può imparare.

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Se l’Italia barcolla, Milano vola

Se l’Italia barcolla, milano vola. A dirlo Giuseppe Sala, sindaco martire di Milano, analizzando la  situazione politico economica attuale. Per quanto possa sembrare paradossale più l’immagine dell’Italia è quella di un Paese fermo e deciso solo a odiare o amare gli immigrati, più il sogno milanese se ne giova: il mondo infatti percepisce Milano come un “place to be”, un posto dove il lavoro si unisce alla cultura e allo sviluppo in più modi. Un sistema virtuoso del fare che non lascia spazio all’inutile e al dannoso senza cercare una soluzione pratica ispirata alla virtus che sta nel mezzo. Ma può davvero essere un bene? Può Milano vivere di luce propria nel mezzo di un Paese che affonda per lo scontro tra i nuovi poteri emersi grazie al sostegno del popolo e quelli sistemici e ormai storici? Il corpaccione dello Stato è grande e l’Italia resta una grande potenza mondiale, pur se fortemente ridimensionata negli ultimi decenni. Ma lo scontro in corso tra vecchi e nuovi potenti sta mettendo a dura prova la resistenza delle istituzioni, Sergio Mattarella (che ci scuserà ma essendo stato eletto nelle condizioni che sappiamo non riusciamo a considerare pienamente legittimo) non pare aver più alcun controllo delle situazione nonostante un assetto istituzionale che gli mette in mano il pallino della situazione. Persino i giudici si sono suicidati a livello mediatico con una indagine che ha avuto il merito di lasciarci alle spalle la magistraturocrazia degli ultimi anni. Un periodo buio e vuoto di contenuti come solo i capitoli di un codice sanno essere: i testi sacri però erano gli unici rimasti dopo che la sfida tra poteri dello Stato era stata vinta dalla magistratura. La Chiesa, da sempre incline a capire ed adeguarsi ai tempi, ha capito e si è dotata di un antipapa, o Papa bis. Ora che è crollato l’ultimo baluardo di fronte a Mattarella l’impotente, non resta più nulla. Solo la forma, ma di sostanza non c’è niente. basta poco perché il crollo sia totale come una serie di piccole ma inarrestabili tessere. Di fronte a questo scenario possiamo davvero pensare che Milano resti come una rocca isolata e intoccabile dalla marea che avanza? Può rimanere indifferente? Uno dei suoi valori è proprio aver trasformato qualunque italiano in un milanese, ora forse è la fase in cui è necessario trasformare ogni milanese in un italiano.

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Il paradosso della metro Lilla

Il paradosso della metro Lilla. La Lilla, o metropolitana 5, vive una situazione che sta sfuggendo agli occhi dei milanesi. Come si sa la quinta metropolitana di Milano è stata costruita prima della quarta, ancora impantanata anche se in teoria la M4 doveva essere pronta per Expo 2015. Ma è la Milano di Sala, tutta annunci sfavillanti e risultati mediocri. In questo clima drogato nessuno ha chiesto niente ad Astaldi, quando ha costruito una metropolitana con la curva principale sbagliata. La curva tra le fermate Isola e Garibaldi è troppo stretta, quindi o i binari o le rotaie si consumavano troppo. Ad oggi l’unica soluzione è stato cambiare le ruote ai treni e prepararsi a cambiare i binari periodicamente. Un errore ci può stare, anche se quella è la curva più importante dei 13 chilometri di linea. Però quasi dal primo giorno alcuni treni hanno iniziato a girare con le porte rotte, porte che non sembra siano mai state aggiustate. Tanto che quotidianamente gli smombi ci sbattono contro. E non finisce qui: chi ha usa abitualmente la Lilla ha visto molte volte le stesse scale mobili chiuse per “manutenzione”, così come le macchinette dei biglietti Atm. Un operaio, sentito alla fermata Niguarda due anni fa, ha spiegato che il motivo è molto semplice: “Si continuano a spostare i pezzi, ma sono sempre gli stessi”. E le sue parole trovano conferma nei quotidiani disservizi che hanno colpito più volte persino Garibaldi, in teoria la stazione fiore all’occhiello della Lilla. Eppure tutto questo pare passare inosservato, forse perché le ferrovie cittadine sono uno di quei settori dove in tanti hanno rimediato una consulenza per sé o per conoscenti in questi anni. Ma il fatto più curioso è che Ferrovie dello Stato ha acquistato la maggioranza della società che controlla la metro 5. Nel 2017 ha rilevato proprio la quota di Astaldi, società che in tanti dicono essere a un passo dal fallimento. Ora con una quota del 36% le Ferrovie sono a capo di questo tanto sfavillante quanto già cadente manufatto. Quando il primo albero del Bosco Verticale cadrà in testa a qualcuno per mancanza di manutenzione probabilmente avverrà la stessa cosa: nessuna reazione, perché anche quello fa parte del modello Milano. Del Sogno milanese. Un insieme di idee che non possono essere incrinate dalla realtà, segno che l’anima di città giornalistica è profondamente impressa nel carattere di Milano: un vecchio adagio giornalistico infatti recita “mai rovinare una bella notizia con la verità”. In questo caso la verità è il paradosso della metro Lilla, sta in piedi a mala pena, ma nessuno lo dice. Eppure anche Atm, cioè il Comune di Milano, è parte della cordata che controlla la metro automatizzata di Milano. D’altronde questi anni magici di Milano, che temiamo pagheranno i nostri figli, sono gli stessi in cui un sindaco viene condannato per aver truccato le carte di un appalto da oltre 200 milioni di euro e gli fanno pure gli applausi.  

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Sala, ascolta la tua sinistra

Sala, ascolta la tua sinistra. Giuseppe Sala appena vinta l’assegnazione delle Olimpiadi Invernali 2026, come al solito fingendo di essere stato l’unico a crederci, ha lanciato la sua autocandidatura a nuovo capo della sinistra italiana. Qualcosa di diverso dal Partito democratico, bollato come troppo centrista. Ma allora Sala dovrebbe ascoltare la propria sinistra: Potere al popolo di Milano ha infatti pubblicato un commento sulla sua recente condanna, e forse sarebbe il caso che il neo candidato li ascoltasse visto che non gli interessa il parere dei moderati: Il sindaco di Milano, Beppe Sala, è stato condannato alla pena di sei mesi di detenzione (commutati in pena pecuniaria) per la nota vicenda delle retrodatazione dell’atto di nomina di due membri della commissione che doveva decidere a chi affidare l’appalto più importante di Expo 2015. La notizia non stupisce chi, sin da prima dell’apertura di Expo 2015, ne aveva denunciato i metodi “manageriali” di gestione al limite e talvolta oltre la legalità. Il sindaco è rimasto impigliato in una vicenda che può apparire secondaria ma che testimonia la poca attenzione al rispetto delle regole di conduzione di un evento pubblico, realizzato con la spregiudicatezza affarista che ha convinto il Partito Democratico a sceglierlo come proprio candidato. Non siamo stupiti dalle dichiarazioni di Sala nè dal fatto che il sindaco ha dichiarato che continuerà comunque a guidare il Comune per i prossimi due anni, che come noto saranno quelli in cui si avvierà la realizzazione dell’ennesima “grande opera” del nostro paese, le Olimpiadi invernali di Milano e Cortina del 2026. Nè siamo stupiti dal fatto che la sentenza del tribunale non contesti il modello di città portato avanti dal sindaco ma solo dei vizi di procedura formali. Il sindaco Sala ha infatti sicuramente un grande pregio agli occhi del Partito democratico e di tutte la classe dirigente di questa città, che per noi è però un grande difetto. Beppe Sala ha infatti agito e continua ad agire come il manager di una azienda. E come tale ha un solo obiettivo, ovvero quello di fare profitti e staccare dividendi agli azionisti della azienda. Per realizzare tale obiettivo un bravo manager non si fa scrupolo di andare in sfregio alla stesse regole democratiche di cui si fa vanto. Per realizzare tale obiettivo un bravo manager non si preoccupa di sfruttare un esercito di volontari a discapito dei lavoratori e dei loro diritti, se questo gli permette di risparmiare sui costi. Per realizzare tale obiettivo un bravo manager non si preoccupa delle colate di cemento che ricopriranno intere aree, anzi è decisamente favorevole in vista della vendita di queste aree al miglior offerente. E infine per realizzare tale obiettivo un bravo manager non si preoccupa di tagliare servizi fondamentali, perché li considera alla stregua di asset aziendali non utili ai profitti. Beppe Sala ha quindi tutte le qualità del bravo manager, ma non per questo quelle di un bravo sindaco. Perché ha una visione della città, del suo sviluppo, dei diritti dei suoi cittadini e dei lavoratori che poco ha a che fare con il benessere e molto con il profitto, una visione della città che è opposta a quella che ha il nostro movimento. Infine non possiamo non notare, oltre alla scontata solidarietà del PD, che immagina per Sala anche un possibile ruolo nazionale, il commento misurato di Matteo Salvini. Il ministro degli interni si è infatti dichiarato orgoglioso, da milanese, di come è stato gestito Expo 2015 e ha precisato di “non essere abituato a festeggiare” le condanne altrui (dichiarazione che fa sorridere se si pensa a tutto quanto accaduto da quando è ministro). Evidentemente, tanta prudenza da parte di Salvini risponde alla volontà di non mettere in discussione l’alleanza tra PD e Lega che si è saldata sull’affare delle Olimpiadi, che vede in Sala un personaggio di riferimento, e che ha nell’europeismo sbandierato o meno (come nel caso dellq Lega) un altro cardine. L’alleanza tra PD e Lega a proposito delle grandi opere è già stata sperimentata a proposito di Expo 2015, della TAV in Val di Susa e ha nelle Olimpiadi invernali 2026 un altro gioiello di pregio che Salvini non vuole certo rovinare. La condanna del sindaco Sala offre una ragione ulteriore a noi per cominciare a ripensare l’alternativa, a un modello di sviluppo della città alternativo a quello che sindaco e Partito Democratico hanno imposto come unico possibile, spesso interiorizzato anche da chi ne subisce le volute ricadute negative, ma non per questo assolutamente da contrastare e ribaltare!

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