Alberto Litta Modignani, un eroe milanese da non dimenticare
Questa è una bella storia. Una storia d’altri tempi con protagonista un valoroso cavaliere Milanese: il maggiore Alberto Litta Modignani. Molti direbbero “un uomo come non ne nascono più”, ma nonostante tutto, sono convinto che nella nostra città ce ne sono ancora tanti di milanesi così. La mattina del 24 agosto del 1942 splendeva il sole a Isbuscenskij un paesino formato da quattro casupole in un’ansa del Don ignorato da qualsiasi atlante geografico. Il paesaggio era di un giallo accecante, quello dell’erba seccata dal sole e degli sterminati campi di girasole che vi crescevano, a interrompere la monotonia della steppa sterminata c’erano solo i colori di un accampamento dove durante la notte avevano riposato gli uomini del “Savoia Cavalleria” e del reggimento di artiglieria a cavallo “Voloire”. A portarli li erano stati gli eventi bellici che in quei giorni sconvolgevano il mondo. A metà agosto le forze dell’Asse avevano lanciato una massiccia offensiva sul fronte orientale che le aveva portate fino alle porte di Stalingrado e all’Armata Italiana in Russa – in cui erano inquadrate le forze di cavalleria – era stato affidato il compito di presidiare l’ala sinistra dello schieramento attestandosi nell’area del Don. Il 20 di agosto i russi, nel tentativo di alleggerire la pressione alla quale erano sottoposti, lanciarono una massiccia controffensiva riuscendo a sfondare il fronte nel punto tenuto dalla Seconda Divisione di Fanteria Sforzesca. Nelle vicinanze si trovava il Raggruppamento di truppe a cavallo “Barbò”, che prendeva nome dal suo comandante, il generale Guglielmo Barbò di Casalmorano. A costituirlo erano i Reggimento di Savoia Cavalleria e Lancieri di Novara, e il Reggimento di Artiglieria a Cavallo Voloire. A parte di questi fu affidato il compito di contenere l’avanzata nemica. L’ordine era di spostarsi per occupare quota 213,5 compresa tra i villaggi di Jagodnij e Čebotaresvskij, e di lì prendere sul fianco le truppe sovietiche impedendogli di tagliare le vie di rifornimento all’alleato tedesco impegnato a Stalingrado. Alle prime luci dell’alba, i 700 cavalieri del “Savoia Cavalleria” che avevano bivaccato posti a quadrato sotto la protezione dai cannoni della “Voloire”, si stavano preparando per riprendere la marcia verso quota 213,5. Non sapevano che durante la notte tre battaglioni dell’812º reggimento di fanteria siberiana (812 strelkovyj polk) composto di circa 2.500 soldati al comando di Serafim Petrovič, si erano portati a circa un chilometro dall’accampamento e si erano trincerati in buche fra i girasoli, formando un ampio semi-cerchio, da nord-ovest a nord-est dove attendevano che sorgesse il sole per attaccare le truppe italiane. Gli italiani però non erano degli sprovveduti, mentre il grosso delle truppe smontava il campo, fu mandata una pattuglia a cavallo in avanscoperta. La comandava il sergente Ernesto Comolli cui era stato affidato il compito di controllare un mezzo agricolo carico di fieno che era stato notato la sera precedente. Erano solo le 3:30, i russi non si aspettarono certo di vederli arrivare così presto così una delle sentinelle che era appostata fra i girasoli, non si avvide dei tre che si avvicinavano al piccolo trotto. La notò invece il caporalmaggiore Aristide Bottini che pensando si trattasse di un tedesco lo salutò agitando la mano e gridando “Kamarade!”, quello che ottenne per risposta fu un colpo di fucile che gli sibilò vicino. Fu l’ultimo colpo che il siberiano sparò in vita sua, il terzo cavaliere, il siciliano Petroso e lo colpì al primo tentativo proprio sotto la stella rossa che aveva mostrato voltandosi. Vistisi scoperti, i russi iniziarono subito un rabbioso fuoco di mortai e mitragliatrici che investì il campo italiano. Nel campo tutto procedeva con ordine quando arrivarono i primi colpi a sconvolgere il lavoro del mattino, vi fu un attimo di sconcerto nel vedersi attaccati in modo così inatteso, ma durò poco, anche se sotto quell’improvvisa pioggia di piombo un reparto avrebbe potuto sfaldarsi al Savoia, non capitò e ognuno rimase al suo posto. Fra i primi a essere colpiti ci furono il Tenente Colonnello Giuseppe Cacciandra, vice comandante del reggimento, preso a una gamba così come il capitano Renzo Aragone ferito a un ginocchio e solo la fortuna volle che, il colonnello comandante Alessandro Bettoni Cazzago fosse solo sfiorato da un proiettile che gli forò il cappotto. In realtà il Colonnello Bettoni fu l’unico a perdere la calma, non per paura però, per una questione d’onore. Noto per i suoi modi cortesi, quella volta si adirò con l’alfiere, il tenente Emanuele Genzardi, rimproverandolo in modo insolitamente rude gli gridò: “Cosa aspetti a scoprire lo stendardo? Non vedi che Savoia combatte?“ Per il Colonnello era inaccettabile che forma e tradizione non fossero state immediatamente rispettate. Quando un reparto di cavalleria combatteva lo stendardo doveva essere scoperto e spiegato al vento perché fosse chiaro a tutti che accettava la battaglia. Era una questione di rispetto per il nemico, per lui non faceva differenza se si trattava di contadini del Don o della cavalleria prussiana. Il tenente Genzardi si affrettò a scioglierlo. Nel frattempo i cannoni del “Voloire” magistralmente comandati dal tenente Giubilario avevano già iniziato a rispondere al fuoco costringendo i sovietici, stupiti dalla pronta reazione, ad arretrare per allontanarsi dalla linea italiana. Al colonnello Bettoni non sfuggì la manovra e intenzionato a cogliere il nemico in movimento, dopo avere accarezzato l’idea di caricare con tutto il Reggimento, cosa da cui si dice lo dissuase il suo aiutante il Maggiore Pietro de Vito Piscicelli di Collesano, ordinò al secondo squadrone comandato dal Capitano Saverio de Leone, di caricare i sovietici su un fianco. Fermiamoci un attimo. Anche se ai giorni nostri può sembrare strano, è bene chiarire che quei 700 cavalieri che stavano per caricare alla sciabola un nemico dotato di armamenti moderni che li soverchiava per numero (quattro a uno), non erano in cerca di una morte romantica e gloriosa, ma avevano la ferma convinzione che la vittoria sarebbe stata loro. I cavalli scalpitavano con i loro cavalieri in sella quando il Capitano de Leone gridò “Caricat!”, i suoi uomini gli risposero in coro “Savoia!” poi tutti insieme si lanciarono verso le postazioni nemiche. Dopo avere
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