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Cosa possiamo imparare dal data breach della SIAE?

Cosa possiamo imparare dal data breach della SIAE? di Federica De Stefani, avvocato e responsabile Aidr Regione Lombardia Ogni qualvolta si sente parlare di data breach dovremmo fermarci e approfondire l’argomento perché dalle vicende negative altrui si possono trarre preziosi insegnamenti. Gli attacchi informatici aumentano, ormai, in maniera esponenziale, ma i problemi che si devono affrontare rimangono gli stessi. Si passa dalla mancanza di adeguate misure di prevenzione alla gestione non corretta dell’evento, dalle informazioni non veritiere riferite agli interessati ai tentativi di imputare la colpa a soggetti determinati. L’ultimo data breach salito agli onori della cronaca è quello occorso alla SIAE. La cronistoria dell’attacco informatico inizia il 20 ottobre con la violazione delle infrastrutture IT della SIAE ad opera della organizzazione di cybercriminali denominata Everest. I dati sono stati esfiltrati, è stato richiesto un riscatto in bitcoin e i dati sono stati messi in vendita nel dark web. Si aggiunga inoltre che alcuni artisti iscritti alla SIAE sono stati contattati direttamente dai cybercriminali per il pagamento di un riscatto per la cancellazione dei dati personali in loro possesso. I dati personali esfiltrati Ecco il punto cruciale di ogni data breach: i dati personali, la gestione, l’esatta valenza che attribuiamo agli stessi. Il GDPR, da questo punto di vista, è chiaro, l’art. 33 espressamente impone che “In caso di violazione dei dati personali, il titolare del trattamento notifica la violazione all’autorità di controllo competente a norma dell’articolo 55 senza ingiustificato ritardo e, ove possibile, entro 72 ore dal momento in cui ne è venuto a conoscenza, a meno che sia improbabile che la violazione dei dati personali presenti un rischio per i diritti e le libertà delle persone fisiche”. La SIAE, correttamente, notifica l’esfiltrazione al Garante per la protezione dei dati personali, che secondo la procedura apre un’istruttoria, ma poi il presidente in un’intervista al TG1 afferma testualmente che “per fortuna non sembrerebbero esserci dati economici, cioè relativi a iban bancari, iban e cose di questo genere, solo dati anagrafici relativi a carte d’identità, codici fiscali e dati di molti nostri dipendenti…” Emerge in tutta la sua dimensione la mancanza di consapevolezza che ancora oggi abbiamo con riferimento ai dati personali. I dati anagrafici vengono considerati meno importanti dei dati bancari molto probabilmente perché non si percepisce cosa si possa fare con questi dati, quali reati e quali truffe possano essere realizzate. Smentiamo quindi questa falsa credenza: i dati anagrafici hanno la sessa importanza di altre tipologie di dati, anzi, la loro combinazione può portare ad un livello di pericolosità superiore rispetto ad un “semplice” dato bancario. Ciò che varia è la percezione che ha l’utente della potenzialità negativa che possono avere i dati che finiscono nelle mani dei cybercriminali. Non è mai “solo” un numero di telefono, non è mai “solo” un codice fiscale, non è mai “solo” un nome e cognome. È ciò che si può fare con quei dati, è questo il pericolo che si deve valutare. La tipologia di attacco L’attacco informatico messo a segno da Everest avrebbe sfruttato il basso livello di protezione delle infrastrutture IT di SIAE. Niente ransomware, quindi niente crittografia dei dati, ma semplice penetration test ed esfiltrazione dei dati dovuti, appunto, alle scarse protezioni adottate dalla società. Si accendono, ancora una volta, i riflettori sulla necessità, per le aziende, di investire nelle misure di prevenzione e di sicurezza proprio per far fronte all’aumento esponenziale delle minacce cyber. La cybersecurity deve rientrare di diritto tra le priorità aziendali poiché non è possibile, considerando i danni, economici e reputazionali, ai quali espone un incidente informatico, rimandare il rafforzamento delle misure in questo senso.

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Data breach: se lo conosci lo eviti? Non sempre

Data breach: se lo conosci lo eviti? Non sempre di Federica De Stefani, avvocato e responsabile Aidr Regione Lombardia Sentiamo (sempre più) spesso parlare di data breach e la richiesta che ne deriva, quasi naturalmente, riguarda la possibilità di evitarlo o, quanto meno, di contenerlo. La risposta, purtroppo, è negativa, non è possibile evitare un data breach poiché il “rischio zero” non esiste. È certo possibile limitare le occasioni per cadere nella “trappola” dell’incidente informatico ed è altrettanto possibile limitare le conseguenze che ne derivano, ma questo è un discorso diverso. Per comprendere il fenomeno del data breach, molto spesso identificato esclusivamente con un attacco hacker, è necessario comprendere di cosa si tratti. Che cos’è il data breach Con il termine “data breach” si indica una violazione di sicurezza che comporta – accidentalmente o in modo illecito – la distruzione, la perdita, la modifica, la divulgazione non autorizzata o l’accesso ai dati personali trasmessi, conservati o comunque trattati. Come si vede un data breach può comportare la perdita di dati che non derivano da un attacco hacker, ma può derivare anche dalla perdita della diponibilità degli stessi, così come avviene nell’ipotesi in cui ci sia, per esempio, un furto di un device. Quando si verifica il data breach. Le tipologie di data breach sono piuttosto varie e quindi, a mero titolo esemplificativo, possiamo indicare come rientranti nella casistica l’accesso o l’acquisizione dei dati da parte di terzi non autorizzati, il furto o la perdita di dispositivi informatici contenenti dati personali, l’impossibilità di accedere ai dati per cause accidentali o per attacchi esterni, virus, malware, ecc, la deliberata alterazione di dati personali, la perdita o la distruzione di dati personali a causa di incidenti, eventi avversi, incendi o altre calamità, la divulgazione non autorizzata dei dati personali. Dove si può verificare un data breach Un data breach, inteso, come detto, come violazione che incide sulla disponibilità, integrità e riservatezza dei dati, può riguardare qualsiasi ambito, sia fisico sia digitale. Si pensi, per esempio, alla distruzione di un archivio cartaceo, o al furto di documenti o, ancora, alla manomissione e all’alterazione degli stessi. I soggetti interessati da un data breach Un data breach rappresenta un evento che, a seconda delle caratteristiche specifiche del singolo caso, può coinvolegere soggetti diversi. Il titolare del trattamento è colui che, a norma dell’art. 33 GDPR, si deve attivare senza ingiustificato ritardo e, ove possibile, entro 72 ore dal momento in cui ne è venuto a conoscenza, per notificare la violazione al Garante per la protezione dei dati personali, salva l’ipotesi in cui sia improbabile che la violazione dei dati personali comporti un rischio per i diritti e le libertà delle persone fisiche. Al contrario, qualora la violazione presenti rischi elevati per i diritti e le libertà delle persone fisiche, il titolare, sempre senza ritardo, deve anche provvedere a informare gli interessati. Nel caso in cui sia stato nominato un Responsabile del trattamento quando questi venga a conoscenza di una violazione, è tenuto a informare tempestivamente il titolare in modo che possa attivarsi. Le cause di un data breach Come detto il data breach è violazione di sicurezza che comporta – accidentalmente o in modo illecito – la distruzione, la perdita, la modifica, la divulgazione non autorizzata o l’accesso ai dati trattati e questo significa, nella pratica, che le misure di sicurezza adottate non hanno funzionato. Non bisogna tuttavia cadere nell’errore di associare automaticamente il data breach all’adeguatezza delle misure adottate per farne derivare sic et simplicter una responsabilità (oggettiva) del titolare del trattamento. La questione è ben più complessa, posto che il GDPR non prevede una responsabilità di questo genere in capo al titolare, ma prevede la possibilità per lo stesso di dimostrare di aver fatto tutto quanto in suo potere per proteggere i dati trattati. Il fattore umano e l’importanza della formazione Se da un lato l’evento data breach non può essere totalmente eliminato, in quanto, come anticipato, il rischio zero non esiste, dall’altro è necessario interrogarsi sulle strategie e sulle misure da adottare per limitare al massimo il rischio. Al di là delle misure tecniche e organizzative “adeguate”, così nella terminologia del Regolamento europeo, una parte importante della prevenzione è rappresentata dalla formazione del personale. Ad oggi il fattore umano rappresenta ancora un tallone d’Achille piuttosto diffuso in moltissime realtà, anche strutturate e di grandi dimensioni. La mancanza di adeguata e specifica formazione, l’assenza di policy adeguate sull’utilizzo degli strumenti informatici e sulle procedure, sono ancora oggi cause piuttosto diffuse di data breach. Il nodo della questione è rappresentato non solo dalla tipologia di protezione adottata, ma anche dalle modalità di applicazione delle stesse, dall’aggiornamento e dalla formazione specifica data ai soggetti che trattano i dati. Non si deve infatti dimenticare che la compliance deve svolgersi a più livelli, deve essere trasversale e non può riguardare solo il lato tecnico e la cybersecurity, ma anche l’aspetto organizzativo e procedurale per quanto attiene al c.d. fattore umano.

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