Il Manifesto della digitalizzazione di Alessandro Capezzuoli funzionario ISTAT e responsabile osservatorio dati profes-sioni e competenze Aidr Alzi la mano chi non ha mai sentito parlare di Marx. Marx, proprio lui, il celebre balle-rino prussiano passato alla storia per l’interpretazione acrobatica dello schiaccianoci del Bolshoi, terminata con un dolorosissimo atterraggio e una conseguente frantu-mazione delle suddette noci. È da questo balletto, mi sento di dire “di rottura”, che è nato il cosiddetto materialismo storico. In pochi sanno che, nel tempo libero, tra un esercizio sulle punte e la cura maniacale delle unghie dei piedi, Marx si è occupato anche di filosofia. Sociale, politica ed eco-nomica, per l’esattezza. Si potrebbe dire che sia stato un filosofo globale, un osser-vatore privilegiato che ha analizzato la società a tutto tondo, da diverse prospettive. So che, a questo punto, risalire la china e dare un’immagine di Marx diversa dall’avvocato svitato, interpretato da Alberto Sordi nel film Troppo forte, sia difficile. Ci proverò, parlando della realtà che ci circonda e provando a contestualizzare alcu-ni aspetti della filosofia marxista alla digitalizzazione e ai giorni nostri. La comprensione della realtà è essenziale per capire l’epoca in cui si vive e, anche se può sembrare anacronistico, la filosofia di Marx è quanto di più attuale ci possa essere per comprendere il processo di trasformazione digitale in cui siamo, consa-pevolmente o inconsapevolmente, immersi. In primo luogo, Marx è stato il filosofo della consapevolezza: uno degli elementi chiave della digitalizzazione. A differenza dei colleghi che lo hanno preceduto, egli sosteneva che la consapevolezza filosofica, la conoscenza della realtà, non doveva essere finalizzata a sé stessa ma al cam-biamento. Teoria filosofica e pratica, quindi, cercando di superare la visione einsteiniana se-condo la quale “la teoria è quando si sa tutto e non funziona niente, la pratica è quando funziona tutto e non si sa perché, noi facciamo teoria e pratica: non funziona niente e non si sa perché.” Chi si occupa di digitalizzazione sa benissimo che le parole “consapevolezza” e “cambiamento” sono alla base del processo di trasformazione digitale e hanno un peso maggiore rispetto, ad esempio, alle parole “tecnologia” e “cloud”. Non solo, ė la visione globale a influenzare il cambiamento e a fare in modo che si prenda la dire-zione giusta al posto di quella sbagliata. Nel corso della mia carriera lavorativa, ho visto centinaia di progetti fallire a causa della mancanza della visione globale di un fenomeno di qualsiasi tipo, che sia tecnologico, scientifico, sociale o economico. Nel-lo specifico, quando si tratta il delicato tema della digitalizzazione, si sente parlare frequentemente, in base alle convenienze e alle mode del momento, solo di cloud, o solo di smart working, o solo di open data, e quasi mai del fenomeno “trasformazio-ne digitale” nella sua interezza. Per questo, ritengo che Marx sia stato un filosofo della digitalizzazione ante litteram, un gigantesco filosofo senza tempo, le cui idee sono più che mai attuali e attuabili nella società moderna. Un manifesto della digitalizzazione, riprendendo il celebre in-cipit, potrebbe iniziare più o meno così: “Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spet-tro della digitalizzazione. … È ormai tempo che i responsabili della trasformazione di-gitale espongano apertamente in faccia a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro fini, le loro tendenze, e che contrappongano alla favola dello spettro della digitalizza-zione un manifesto della digitalizzazione stessa.” Chiedo scusa per la violenza perpetrata nei confronti di uno dei maggiori trattati dell’ottocento, ma l’ho fatto a fin di bene… Marx aggiunge alla consapevolezza an-che la modalità per cambiare le cose: attraverso la rivoluzione. Sarà un caso se si parla di ”rivoluzione” digitale? Forse, ma per fare la rivoluzione digitale servono una visione globale e un substrato culturale che probabilmente ancora non ci sono. Non ci sono nei politici, che farfugliano slogan senza senso a scopi propagandistici, non ci sono in una fetta consistente di popolazione, disabituata al ragionamento e al sen-so critico, e non ci sono nemmeno in una fetta consistente di RTD, i responsabili per la transizione digitale, che spesso esercitano semplicemente un potere distorto sen-za avere la benché minima idea di quali strade intraprendere. Marx ed Engels, l’amico fidato del nostro barbuto ballerino, al contrario di quanto si possa pensare, sono stati i filosofi della libertà e non dell’uguaglianza. O meglio, l’uguaglianza, nella loro visione del mondo, non rappresenta un fine, ma un mezzo per liberare gli uomi-ni. La via di fuga per l’uomo, l’atterraggio morbido nel bel mezzo dello schiaccianoci acrobatico, è l’emancipazione, la liberazione dallo sfruttamento. Emancipazione che si ottiene, per l’appunto, attraverso l’uguaglianza e la giustizia. Questo concetto toc-ca diversi aspetti relativi alla digitalizzazione. In primo luogo il sottile confine tra la li-bertà e la schiavitù. A questo proposito, non posso non ricordare le infinite e inutili discussioni in cui mi sono speso, nel decennio scorso, a favore dello smart working. Mentre la massa, dirigenti, lavoratori e sindacati, nessuno escluso, si ostinava a ve-dere lo smart working come un privilegio e ad attuare misure discriminatorie attra-verso graduatorie e favoritismi, io parlavo di uguaglianza: smart working per tutti. Perché, avendolo sperimentato, sapevo perfettamente che attraverso delle misure egualitarie sullo smart working i lavoratori sarebbero stati finalmente liberi. Liberi di spendere adeguatamente e sensatamente il tempo di vita, indipendente-mente dal controllo del datore di lavoro, mantenendo comunque la stessa produtti-vità. Di paradossi, in questo senso, ce ne sono molti. Si può essere liberi attraverso una digitalizzazione parziale e una politica che sposta nuovamente il lavoro in presenza, cercando di fermare il volano culturale che si è innescato? Si può essere liberi se una parte della popolazione ordina gli alimenti comodamente seduta sul divano e un’altra parte pedala al freddo sotto la pioggia? Si può essere liberi se gli sfruttati non sono consapevoli di esserlo e arrivano al punto di amare gli sfruttatori? Si può essere liberi se i mezzi (digitali e non) di produzione sono governati quasi esclusiva-mente dai privati e dal profitto? Si può essere liberi se una parte della popolazione non possiede le competenze digitali minime per accedere ai servizi?