Festa delle donne, ma cosa dobbiamo festeggiare?
Festa delle donne, ma cosa dobbiamo festeggiare? Quando rifletto sulle battaglie per le donne, per le mamme, per chi si occupa di lavoro e cura dei propri famigliari non posso non pensare a Carolina Pellegrini, che con competenza e passione ha dedicato la sua vita ad aiutare gli altri e le altre. Libera professionista nell’ambito della formazione e del lavoro, affronta ogni giorno sul campo le problematiche quotidiane delle donne. Nessuna battaglia ideologica, tanta concretezza. La festa delle donne è alle porte, ma che cosa dobbiamo festeggiare? Ne ho parlato con Carolina e spero che le sue riflessioni possano veramente avere voce nell’ambito pubblico, perché sarebbe un bene per tutti. L’8 marzo è la festa delle donne, che cosa rappresenta per te questo momento? Non ho mai creduto molto nelle ‘’feste o ricorrenze stabilite dal calendario’’, servono certamente a riporre l’attenzione su un tema, ma non sono risolutive se poi non si lavora sempre. Quest’anno poi purtroppo non c’è nulla da festeggiare se non la straordinaria capacità di molte donne ad aver tenuto insieme tutto. Si parla di donne come una categoria da proteggere, difendere, tutelare, ma i dati recenti emersi sulla perdita del lavoro delle donne ci confermano uno scenario drammatico. Secondo l’Istat, il mese scorso gli occupati sono diminuiti di 101.000 unità, 99.000 sono donne. Che cosa non ha funzionato nelle azioni politiche fino ad ora messe in campo? Ormai ripeto come un disco rotto che questa pandemia purtroppo ha messo in evidenza come una lente di ingrandimento, problemi già presenti e mai affrontati adeguatamente. La pandemia sta esasperando le diseguaglianze penalizzando chi già era fragile e purtroppo moltissime sono donne. La crisi sanitaria ha colpito maggiormente quei settori dove le donne sono maggiormente impiegate e dove magari avevano creato la loro attività. Il lavoro di cura è aumentato e purtroppo in molti casi ha creato seri problemi di convivenza. Questi numeri molto preoccupanti purtroppo ci fanno pensare ad uno scenario in cui è possibile che un equilibrio già fragile nelle famiglie con un reddito medio/basso, si possa spezzare e questo peserà molto sulla coesione sociale. Cosa non ha funzionato? Le questioni aperte e mai risolte. Siamo stati catapultati all’improvviso in una nuova dimensione quella tecnologica, accelerando processi a cui forse nessuno aveva mai creduto fino in fondo. Lo smart working è stata certamente la salvezza, ma non essendo ‘’rodate’’ per moltissime donne è stato un calvario anche perché in moltissimi casi lo si è confuso con il telelavoro. La pandemia ha inoltre acutizzato, come dicevo prima, problemi presenti in altri ambiti come la condivisione dei carichi di cura, la violenza domestica, l’imprenditoria, la formazione e la povertà. Diciamo che le misure adottate dettate dall’emergenza e quindi non sistemiche, toppano dei buchi ma non risolvono i problemi che nella maggior parte dei casi sono culturali. È culturale per esempio il fatto che l’utilizzo dello smart working non sia mai decollato perché ancora si considera la presenza sul posto di lavoro una garanzia per lo svolgimento dell’attività lavorativa. È culturale il fatto che ancora per più del 70% dei casi il lavoro di cura sia sulle spalle delle donne. È culturale il fatto che le questioni femminili vengano considerate quasi ‘’a parte’’ e non nella loro collocazione complessiva che coinvolge tutti. Ricordo sommessamente che le donne curano le età della vita, tengono insieme relazioni, affetti e toppano, come è stato evidente in questo drammatico periodo, i tanti buchi del welfare Che cosa vuol dire per te “parità di genere”? Perché questa non è una battaglia delle donne, ma dovrebbe riguardare tutti? Parità di genere per me è ribadire la diversità tra uomo e donna e garantire le stesse opportunità ad entrambi. Dovrebbe riguardare tutti perché il benessere degli uomini e delle donne garantisce armonia, equilibrio e fa bene alla coesione sociale. Dove non sono garantite le opportunità per esempio di lavoro per le madri, ne risente innanzitutto l’economia familiare, ma anche il PIL di tutto il Paese. Se fossi a Roma (e secondo me dovresti andarci un giorno per il bene di tutti) e ti trovassi a dover decidere come spendere le risorse dei Recovery Fund per aiutare le donne, che cosa suggeriresti? Il Recovery Fund deve essere visto come un grande investimento per il futuro. Tu investi e se lo fai bene non ti accorgi poi di dover ripagare il debito. Secondo l’UE la sottoccupazione femminile costa 370 miliardi l’anno, cifra legata alla mancata produzione di ricchezza e alla minore quota di gettito fiscale a disposizione dei governi. Oggi più che mai sono necessari investimenti moltiplicatori cioè interventi che affrontino alla radice i problemi, che si ripaghino da sé e generino nel tempo valore economico, sociale e cultuale. Quindi bisogna investire su assi precisi. Asse dell’occupazione. Rilancio dell’occupazione femminile attraverso un abbassamento del costo del lavoro ed incentivi fiscali per favorire l’ingresso. Investirei sulla sensibilizzazione nell’ambito dell’organizzazione del lavoro per ribaltare il paradigma che vede ancora il modello maschile come prevalente. Lavorerei per definire bene le forme di lavoro a distanza sottolineando le differenze tra telelavoro, smart working e lavoro agile in modo da investire sul loro utilizzo regolamentandolo nell’ambito della contrattazione. Investirei sulla digitalizzazione che offre oltretutto molte opportunità a tante donne che vogliono realizzarsi anche come imprenditrici. Investirei sulle aziende che scommettono sul welfare aziendale e credono nelle misure family friendly. Lavorerei sul funding gap femminile che purtroppo impedisce a molte donne di investire su attività autonome. Investirei sulla formazione tecnologica delle donne che hanno dimostrato di avere soft skills decisamente straordinarie ma ancora oggi non accompagnate da solide competenze tecnologiche. Investirei su un vulnus vergognoso che è quello legato alla tutela della maternità alle lavoratrici autonome. Asse della cura, tema cruciale durante la pandemia. Basta bonus, ma rafforzamento delle infrastrutture sociali per la cura della prima infanzia e quella familiare (anziani e non autosufficienti). Le infrastrutture sociali peraltro generano spirale virtuosa occupazionale. Potrei proseguire ma chiudo dicendo che in questo momento il nostro Paese ha proprio bisogno del potenziale produttivo di tutti e di tutte, bisogna investire e sostenere questa capacità produttiva Ultima domanda, perché mi capita spesso di parlarne con le mie
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