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Il 28 aprile Special Event al Martinitt con Renato Dibì e le canzoni della “Ligera”

Il 28 aprile Special Event al Martinitt con Renato Dibì e le canzoni della “Ligera”. Con quello che è considerato il migliore interprete italiano della grande tradizione degli Chansonnier, arriva un omaggio in musica alla cultura meneghina. Un tuffo in quelli che, all’ombra della Madunina, furono i tempi della piccola mala locale. Una serata melodica, che oggi guarda quasi con nostalgia alla criminalità “bonaria” di allora e alla società, quella delle case di ringhiera, che ne era il contesto. Mai dimentico del contesto non solo logistico in cui è nato e cresciuto, il Teatro Martinitt ha pronto per il pubblico più affezionato un grande regalo, che non mancherà di essere apprezzato anche da tutti coloro che, per origine o per adozione, si sentono “portatori di milanesità”. Per gli Special Event di questa stagione, che volge piano piano al termine, ecco arrivare Renato Dibì. Considerato il migliore interprete italiano della grande tradizione degli Chansonnier, autore tra l’altro per grandi voci come quelle di Mina, Milva, Al Bano e Califano, Dibì propone il repertorio popolare delle canzoni della Mala, la cosiddetta Ligera milanese. Nell’immediato dopoguerra, nel capoluogo si formò un nuovo genere di piccola malavita, bonaria, proletaria, delle case di ringhiera, degli agglomerati urbani, rifugio di immigrati del Sud Italia. Il Lingia, sempre attento a non cadere nelle mani della Madama (la polizia), era sedotto dal mito cinematografico, quello del colpo che risolve la vita. Rifiutava la violenza ma anche la logica del lavoro, almeno quello continuativo. Per sopravvivere si arrangiava come poteva, rispettando però codici e valori ben precisi. Pur vivendo nel disagio e ai margini della società, era pieno di umanità e sogni d’avventura. MILANO, STORIE DI VITA E MALAVITA, di e con Renato Dibì, alla fisarmonica Gian Pietro Marazza, arrangiamenti e orchestrazione Roberto Negri e Sante Palumbo. MFProduction. Il ladro d’appartamento, il truffatore, il rapinatore gentiluomo, il boss della zona, il palo, il pappone, il piccolo contrabbandiere, il falsario, il borsaiolo e il pataccaro popolavano la notte, nelle osterie e nelle bettole dei Navigli, così come le canzoni dell’epoca. C’è da averne nostalgia, perché negli anni a venire la malavita sarebbe stata una mala diversa, molto più violenta e meno pittoresca. Al ricordo contribuiscono proprio le canzoni della Ligera, fotografie di quel mondo e di quell’atmosfera. Tra tante, Porta Romana bella, La Rosetta, Ma mì, fino a pezzi più recenti come La ballata del Cerutti, Il palo dell’Ortica (proprio lì dove sorge il Martinitt) e I scarp del tennis. Orario spettacolo: ore 21; biglietti: 20 euro. Tutti gli eventi al Teatro Cinema Martinitt si svolgono nel rispetto delle norme sanitarie e di sicurezza previste dai disciplinari anti-Covid. Sono richiesti Super Green Pass e mascherina Ffp2. TEATRO/CINEMA MARTINITT Via Pitteri 58, Milano – Telefono 02/36580010, info@teatromartinitt.it, www.teatromartinitt.it. Orari biglietteria: lunedì-sabato 10.30-21, domenica 14/21. Parcheggio interno gratuito. Costi: 26 euro intero (over 65, 18 euro; under 26, 16 euro). Abbonamenti a partire da 70 euro.  

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La storia della ligera. Quarta parte

L’arresto di Lutring fece molto scalpore sia in Francia che in Italia. Nonostante l’incredibile numero di rapine commesse non avesse lasciato dietro di sé né morti né feriti, di frequente era ricordato con simpatia dalle sue vittime. Insomma, era diventato un personaggio abbastanza popolare fra la gente comune come quasi tutti i vecchi esponenti della vecchia ligera. A  renderlo famoso erano stati l’atteggiamento da guascone, le frasi in dialetto che pronunciava sempre quando “lavorava” nel milanese, la fiabesca storia d‘amore con Yvonne che a Milano conoscevano tutti e di cui si parlava in tutta Italia, ma soprattutto il suo comportamento da ladro gentiluomo. Spesso aveva preteso che fossero pagate le pensioni ai presenti prima di portare a termine la rapine, mentre le compiva aveva sempre un occhio d’attenzione per le anziane vecchine, capitava ci scambiasse qualche battuta ricevendone non di rado in cambio delle sonore sgridate, ma anche in questi casi, se le vedeva in difficoltà non se ne andava mai senza infilargli qualche banconota in borsa. Quando la corte francese, dove venne giudicato nel 1965, lo condannò a ventidue anni di detenzione, la prima cosa che fece fu un gesto d’amore: per evitare che sprecasse il resto della vita ad aspettare un carcerato, lasciò libera Yvonne che – come vedremo poi – non smetterà mai d’amare per tutto il resto della vita. Una volta in cella Lutring, lontano da altre tentazioni, si mise prima a studiare e poi a scrivere e dipingere mettendo in mostra una straordinaria vena artistica che gli fu presto riconosciuta da pubblico e critica. La sua storia attirò l’attenzione di molte personalità del tempo – fra cui Sandro Pertini – col quale intraprese fitte corrispondenze e che probabilmente fecero pressioni sulla giustizia francese perché fosse anticipata la sua liberazione. Fu probabilmente in virtù di questo, dell’avere constatato che effettivamente Lutring fosse un uomo diverso e che non aveva mai fatto del male a nessuno, che scaturì il gesto di clemenza che del Presidente della Repubblica Francese Georges Pompidou che lo graziò nel 1976 subito imitato da quello italiano Giovanni Leone. Fu una fortuna per lui essere in galera negli anni in cui l’ascesa della nuova criminalità scalzò i vecchi esponenti della ligera decretando la fine della vecchia mala milanese. Non gli sarebbe piaciuto assistere a quel cambiamento, avrebbe finito con lo scontrarsi con quei delinquenti sanguinari di cui difficilmente avrebbe  avuto ragione. Probabilmente il carcere gli salvò la vita. Tornato in libertà si dedicò alla scrittura e soprattutto, con successo, alla pittura che, gli diede modo di vivere in modo agiato. I suoi quadri sono stati esposti in numerose mostre, collettive e personali, e gli sono valsi molti premi e riconoscimenti in tutta Europa. Pur se assumendo un tenore di vita meno vistoso e più riservato del precedente, il suo aspetto non era cambiato, volto sorridente, baffi, capelli lunghi e aspetto scanzonato lo rendevano affascinante e già nel 1977 iniziò una relazione con la donna che nello stesso anno  gli diede il suo primo figlio, Dora Internicola. Purtroppo Mirko, così lo chiamarono, morì qualche anno dopo, nel 1995 in un tragico incidente dandogli il secondo grande dispiacere della vita dopo l’avere dovuto lasciare Yvonne. Nonostante fosse ancora in vita, più passavano gli anni, più la sua storia si copriva di un alone di leggenda. Su di lui si scrivevano libri e prima ancora che fosse scarcerato erano usciti due film sulla sua vicenda criminale: “Svegliati e uccidi”, nel 1966  interpretato da Robert Hoffmann Lisa Gastoni e Gian Maria Volonté, e “Lo zingaro”, nel 1975, nel quale Lutring è interpretato da Alain Delon. Dopo  la storia con la Intarnicola conobbe Flora D’Amato che sposò nel 1985, i due ebbero due figlie gemelle, Natasha e Katiusha, ma anche questa storia naufragò, si separarono nel 1997. Gli amici più intimi dicevano che non riuscisse ad evitare di confrontare tutte le donne che entravano a fare parte della sua vita con Yvonne e che queste ne uscivano sempre sconfitte cosa che alla lunga logorava i rapporti. Dopo il divorzio continuò nella sua carriera artistica intensificando i rapporti con il pubblico, partecipò a molti incontri pubblici soprattutto con i giovani ai quali amava dire di vivere d’arte e onestà, e non dei suoi stessi errori. Nei primi anni duemila scelse di ritirarsi a vivere in riva al Lago Maggiore nei pressi di Stresa e poco dopo si ammalò di un male che lo avrebbe lentamente portato via. Gli infermieri dell’ospedale dove fu ricoverato negli ultimi mesi di vita, quando oramai necessitava di cure giornaliere, raccontavano che ogni tanto fuggiva per recarsi alla Stazione di Stresa a sedersi su una panchina da dove guardava i treni che arrivavano. Agli amici che a turno andavano a riprenderlo diceva che andava li perché sperava sempre di vedere scendere Yvonne da qualche vagone (lei era morta oramai da anni). Infine, la notte fra il dodici e il tredici maggio 2013 la morte se lo portò via. Con lui se ne andò l’ultimo rappresentante della ligera chiudendo definitivamente la storia di questa mala romantica i cui appartenenti rubavano quasi sempre per necessità, non facevano male a nessuno e se potevano aiutare un povero diavolo non mancavano mai di farlo. Ci piace pensare che Luciano Lutring abbia ricevuto la sua terza grazia, quella con cui il buon Dio gli avrà concesso di entrare in paradiso dove siamo certi ora siede di fianco a Yvonne.  

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La storia della ligera. Terza Parte

Continuiamo la storia della ligera che andava verso l’epilogo nello stesso periodo in cui anche vicenda criminale di Lutring volgeva al termine. A sancirne la fine verso la metà degli anni sessanta fu l’avvento di giovani criminali nati nel primo dopoguerra come, Francis Turatello e Renato Vallanzasca che sentendosi andare strette le regole della malavita vecchio stampo ne stabilirono di nuove dalle quali la violenza non era più esclusa. Violenza della quale le prime vittime furono proprio gli appartenenti alle loro bande che spesso caddero sotto i colpi degli altri a causa della sanguinosa faida dovuta alla rivalità che vi fu fra i due fin dai tempi della giovinezza. Uno scontro a cui sopravvissero e che si stemperò solo quando, dopo l’arresto di entrambi, la prigione li portò a riavvicinarsi fino a diventare amici, al punto che Turatello fu testimone di nozze di Vallanzasca quando in carcere si sposò con Giuliana Brusa. Turatello nacque ad Asiago nel “44” da una ragazza nubile impiegata a Milano tornata temporaneamente al suo paese per partorire lontano dai bombardamenti. La leggenda (che in questo caso potrebbe essere vera) narra che Francis fosse figlio naturale del boss mafioso italo-americano Frank Coppola detto “Frank tre dita” anche se non si è mai saputo in che occasione la madre l’avesse incontrato. Cresciuto nel quartiere di Lambrate, in giovinezza fu un discreto pugile dilettante ma al ring preferì la strada e la malavita dandosi prima ai furti d’auto per poi fare carriera grazie alla sua spiccata personalità. Insieme alla sua banda, costituita per lo più di immigrati catanesi, prese il controllo delle bische clandestine e della prostituzione arrivando a guadagnare decine di milioni di lire al giorno. Nonostante il benessere che gli derivava da queste attività, non disdegnò di partecipare a parecchie rapine e sequestri di persona insieme alla “Banda dei Marsigliesi” di Albert Bergamelli (cui dedicheremo qualche riga più avanti) cosa che lo rese noto anche oltre confine. Durante la sua lunga carriera criminale entrò in contatto, con esponenti di cosa nostra e della camorra e il suo nome fu accostato a molti episodi oscuri di quel periodo della storia italiana, fra cui il rapimento di Aldo Moro e alcune azioni compiute dalla Banda della Magliana. Dopo una lunga latitanza fu arrestato il 2 aprile 1977 in viale Lunigiana a Milano e condannato al carcere duro per una lunga serie di imputazioni Dal carcere provò a mantenere il controllo della sua organizzazione ma non vi riuscì e fu soppiantato dal suo braccio destro Angelo Epaminonda detto “Il Tebano”. Iniziò così il declino che di li a quattro anni portò al suo omicidio nel carcere di massima sicurezza di Badu ‘e Carros in Sardegna, avvenuto per mano di Pasquale Barra detto “’o animale” in modo così modo cruento, da non meritare di essere raccontato in questa storia di mala milanese. Probabilmente alla notizia della sua morte Luciano Lutring avrà scosso la testa, come aveva spesso fatto quando, all’inizio della loro carriera criminale, Turatello e il di poco più giovane Vallanzasca avevano fatto capire di che cosa erano capaci. Renato Vallanzasca, a lungo nemico giurato di Turatello, è nato a Milano nel 1950, anche lui nel quartiere di Lambrate in via Porpora al 172. Non potevano che diventare acerrimi rivali. Sua madre, che aveva un negozio di abbigliamento in piazzale Bottini, fu costretta a dagli il suo cognome perché il padre era già sposato e aveva tre figli. Irrequieto fin da bambino, a otto anni fini già al “Beccaria” per avere cercato di far uscire da una gabbia la tigre di un circo che aveva piantato il tendone proprio nelle vicinanze di casa sua. Episodio che gli costerà l’allontanamento da casa e l’affidamento a sua zia Rosa (in realtà si trattava della prima moglie del padre) che abitava al Giambellino, dalla parte opposta della città dove sarebbe rimasto fino a quindici anni per poi fare ritorno a casa dei genitori. Fu lì, in quella zona di veccia mala milanese che grazie al suo carisma mise insieme la sua prima banda di ragazzini dedita a furti e taccheggi, ma il suo modo di agire fuori dalle regole non piaceva per niente ai vecchi boss della ligera che si affrettarono ad allontanarlo dal loro ambiente  e se non fosse tornato ad abitare a Lambrate probabilmente per lui sarebbe finita anche peggio. Tornato nel suo vecchio quartiere fondò quella che sarebbe diventata famosa come la “Banda della Comasina”, cui gli esponenti di maggiore spicco furono:  Antonio Colia, Rossano Cochis, Vito Pesce, Claudio Gatti, Mario Carluccio (morto in uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine in Piazza Vetra a Milano) e Antonio Furiato (morto in uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine durante un sopralluogo per una rapina e al casello autostradale di Dalmine). La banda si specializzò in rapine, sequestri di persona – il più famoso dei quali fu quello di cui rimase vittima Emanuela Trapani, figlia sedicenne di un noto imprenditore milanese – traffico di stupefacenti e di armi, prendendo il controllo di interi quartieri milanesi talvolta anche con l’ausilio di posti di blocco messi per controllare i movimenti della polizia. Al contrario della banda di Turatello, quella di Vallanzasca,  pur macchiandosi di efferati delitti, non ha mai avuto contatti rilevanti con il mondo della grossa criminalità organizzata, rimanendo sempre un fenomeno locale milanese. In poco tempo Vallanzasca accumulò ingenti ricchezze e evidenziò l’unico tratto caratteriale che lo rendeva simile a Lutring: l’amore per le donne e la bella vita. Fin quando rimase in libertà non si fece problemi a condurre e ad ostentare un tenore di vita molto sfarzoso fatto di vestiti firmati, orologi d’oro, auto di lusso, e belle donne che probabilmente non gli sarebbero comunque mancate visto che era un uomo dall’aspetto affascinante, che gli valse il soprannome di “il bel René“, nomignolo con il quale lui non amava affatto – al contrario di quello che si potrebbe pensare – essere chiamato. Nel 1972 la sua carriera criminale ebbe un brusco arresto, quando durante una perquisizione effettuata a casa sua

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La storia della ligera. Seconda Parte

Avevamo lasciato (prima parte) Lutring che emozionato come un adolescente si allontanava rapidamente dal luogo dove aveva messo a segno la sua prima impresa criminale. Sapendosi oramai braccato si diede alla latitanza. Fu in quel periodo che si procurò il mitra che teneva nascosto in una custodia di violino recuperata chissà dove, abitudine che gli valse il soprannome de “il solista del mitra” cosa che sicuramente non soddisfò le ambizioni musicali che avevano per lui i suoi genitori. Questo armamentario stonava un po’ con le tradizioni della Ligera, il cui nome secondo alcuni deriva proprio dal definire “leggera” quella criminalità milanese i cui componenti difficilmente si avvalevano dell’uso delle armi. Nonostante questo non tradì mai i principi di non violenza cui lo avevano educato i più anziani, il suo mitra non sparò mai un colpo che non fosse diretto verso il cielo… o verso il soffitto di qualche banca. Fra i personaggi che popolavano le serate dei fumosi bar dell’Ortica, di Lambrate, del Ticinese, del Giambellino… c’erano più “baùscia” che banditi di professione e anche la maggior parte di questi se fossero stati giovani in un periodo diverso dal dopoguerra difficilmente si sarebbero messi a delinquere. Non stupisce che molti di quelli di loro che sono riusciti a superare indenni prima quel periodo e poi il carcere siano diventati cantanti, pittori o poeti, avevano storie da raccontare, la sensibilità per farlo e il ricordo di vecchi amici che non ce l’avevano fatta a ispirarli. Bruno Brancher, non era destinato a diventare famoso per la sua carriera criminale, forse, se si fosse limitato a quella su di lui sarebbero scritte solo barzellette e canzonette da varietà. Era nato al Ticinese, figlio di una ragazza madre, era cresciuto in una città popolata di disperati a cavalo fra la guerra e la ricostruzione e per sbarcare il lunario aveva iniziato con il fare il ladro di biciclette. Non era mai riuscito a fare il salto di qualità perché il Bruno aveva un difetto:: tartagliava! I suoi amici rapinatori  non l’avevano voluto più con loro dopo che in un paio di rapine non era riuscito a dire nulla più di “Ma… ma … mani in… in…a…al….” prima che si sentissero le sirene della “madama” che consigliavano a  lui e i suoi complici a darsi alla fuga. Lui però non si perse d’animo, si mise in proprio e dopo aver trascorso le serate a raccontare di quella volta che – a suo dire – “si era fatto la bicicletta di Fausto Coppi” passava le notti a infrangere vetrine di gioiellerie per arraffare qualche gioiello senza il problema di dovere dire qualche cosa in tutta fretta. A un certo punto le sue “spaccate” lo avevano reso anche abbastanza noto, ma non era destino, non sarebbe mai diventato una grande criminale perché aveva anche un altro difetto: quando si allontanava troppo dai confini della sua amata Porta Cicca si perdeva! Fu così che una notte, non trovando più la strada di casa fu catturato dalla polizia che lo colse mentre si aggirava sperduto in un quartiere non suo poco dopo avere fatto la sua ultima spaccata. Per un proletario come lui il carcere fu duro, al contrario di quello che capitava ai grandi criminali, amici e famiglia potevano mandargli solo pochi quattrini e non aveva certo gli appoggi politici che cominciarono a riempire le carceri a metà degli anni sessanta, così si trovò isolato. A cambiargli la vita fu un pestaggio subito da un gruppo di extraparlamentari che lo fece finire sui giornali. Chissà come la gente rimase impressionata da quel carcerato così indifeso e cominciò a scrivergli chiedendogli della sua storia e lui rispondendo si accorse che gli piaceva farlo e scattò la scintilla che ne fece uno scrittore. Non più prigioniero del doversi esprimere attraverso i suoni scoprì la bellezza delle parole da cui partorì il suo primo capolavoro: “Disamori”. Un libro con il Naviglio al centro, fatto racconti ispirati a eventi e personaggi della sua gioventù, da cui trasuda tutto il suo amore per Porta Cicca. Distribuito dal libraio e storico del Ticinese Primo Moroni, lo fece assurgere alla notorietà come il poeta-protettore dei miserabili di quella zona. Uscito dal carcere, imparò ad ammaestrare la sua voce mettendosi  raccontare le sue storie come facevano i menestrelli di strada un tempo procurandosi il pubblico nell’unico modo che conosceva… lo rubava ad altri. Negli anni “70” era quasi impossibile assistere a una conferenza o una presentazione all’università senza che lui sbucasse dal fondo della sala alzando la mano, e senza che nessuno glie ne desse il permesso salisse sul palco e cominciasse a raccontare le sue ballate. Ben presto fu così noto che i pochi che chiedevano “Ma chi è quello?” si sentivano rispondere “Ma come, non lo conosci? È il poeta uscito di Galera!“. E poi venne il successo quello vero, altri libri, le serate piene di gente che lo ascoltava parlare di carcere e di ligera. Divenne anche un rubacuori inanellando una storia dietro l’altra con le giovani studentesse che puntualmente si innamoravano di lui, ma non cambiò mai stile di vita continuando a frequentare le vecchie osterie e i pub di posta Genova. Arrivarono i premi letterari, le liti Oreste del Buono e Ada Merini e infine di nuovo il carcere per avere accoltellato – non gravemente – una sua giovane fidanzata e poi tentato di uccidersi. Nel 1985 fu ammesso al lavoro esterno al carcere, il Comune gli diede un occupazione e una casa popolare al Corvetto,  poi grazie all’aiuto di un editore che non ha mai voluto fosse fatto il suo nome riprese a scrivere. Bruno trascorse quegli anni percorrendo le via della città che oramai conosceva come le sue tasche e frequentando i giovani (e le giovani) cui era solito dire “Se vuoi scrivere fallo subito. Quando hai la mia età, una giornata di sole, una donna o una birra ti spingono ad andare fuori, non a faticare al tavolino” per poi metterli in guardia dallo sprecare la loro vita seguendo

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La storia della ligera, attraverso la vita di Luciano Lutring

Dopo che qualche anno fa si è spento Luciano Lutring “il solista del mitra“, uno dei più noti esponenti della “ligera“, non è rimasto che il ricordo della mala che imperversò nella Milano del dopoguerra fino a metà degli anni “70”. Un mondo popolato di personaggi “romantici”, che quasi mai lasciavano vittime sul loro percorso, che tanto stride con la violenza dei criminali che calpestano le strade della nostra città oggi. Luciano Lutring era nato nel 1937, i genitori volevano fare di lui un musicista – in un certo senso lo diventerà – ma lui fin da giovane fu attratto dalla vita dei bassifondi milanesi, popolata da ladri, truffatori, rapinatori, piccoli estorsori e soprattutto “papponi“,  che amava frequentare perché gli permettevano di soddisfare il suo grande amore per le donne. Anni trascorsi nelle osterie ad ascoltare canzoni come “Porta Romana Bella” e “Ma mi” che della “ligera” erano considerati gli inni, in compagnia di altri futuri criminali come Francis Turatello e Renato Vallanzasca che un giorno ne sarebbero diventati i più pericolosi esponenti. Personaggi dalla vita avventurosa come Ugo Ciappina, ex partigiano gappista passato dal fare l’ascensorista in un albergo di lusso a essere fondatore della “Banda Dovunque“. Un’eterogenea compagine di rapinatori composta anche dal veterano Joe Zanotti, l’ex emigrante in Francia Giuseppe Seno, l’ex fascista Alfredo Torta e l’amico di Ugo Ciappina, ex studente di filosofia e partigiano, Ettore Bogni. La banda compì diverse rapine prima di essere sgominata dalla polizia. Dopo la loro cattura si scopri che parte dei proventi dei colpi fu data a un fantomatico rivoluzionario comunista armeno, Calust Megherian, il quale aveva promesso di donarli al PCI. Ovviamente il partito di Togliatti non aveva ricevuto nulla. Ci fu chi pensò si fosse trattato di un complotto per screditare il PCI, ma in realtà i cinque erano stati solo vittime di qualche astuto truffatore che frequentava il loro stesso ambiente. Ciappina non riuscì mai a cambiare vita, uscì dal carcere nel 1955, nel 1958 fu nuovamente arrestato per avere partecipato alla “rapina di via Osoppo”, crimine per cui rimase in cella fino al 1974 per poi essere a vario titolo coinvolto in altre inchieste su episodi dello stesso genere dal 1981 al 2004. Lutring invece non voleva essere coinvolto in fatti che potevano avere risvolti sanguinosi, a lui piaceva la bella vita, le auto di lusso, le incursioni nei grandi hotel in Francia in compagnia di belle donne e per ottenerli gli bastavano i soldi che racimolava con qualche truffa e occasionale spaccata. Lui alle rapine a mano armata preferiva le serate trascorse bevendo “Barbera e Champagne” e ascoltando le canzoni della mala di Ornella Vanoni. In quelle nebbiose notti milanesi con lui c’erano anche altri piccoli criminali i cui nomi sono rimasti solo nella memoria dei vecchi cronisti, Luciano de Maria, Arnaldo Gesmundo, Enrico Cesaroni, Bruno Brancher, Carlo Bollina detto il “paesanino“, Luigi Rossetti detto “Gino lo zoppo“, Sandro Bezzi… e un altro personaggio sul quale spendere qualche parola in più Ezio Barbieri, il boss dell’Isola Garibaldi. Barbieri era nato nel “22” in via Borsieri, proprio al centro del malfamato quartiere dell’Isola, dove la ligera era profondamente radicata fin dagli inizi del “900”. Era destino che entrasse a farne parte dopo aver trascorso l’infanzia fra il Bar Girardengo e il Bar dell’Aquila dove personaggi con soprannomi come “il Generale”, “il Pascià”, “il Profeta”  trascorrevano le giornate giocando a carte e pensando al prossimo colpo. Gente che non alzava mai la voce, non si faceva notare, che nessuno si sognava di chiamare “banditi”, perché per il popolo i criminali erano altri. Alcuni erano stati in America e vi erano tornati diventando dei miti grazie alle storie di gangster che avevano portate con sé, sicuramente erano in buona parte inventate, ma il piccolo Ezio ascoltandole aveva sognato di essere uno di loro. La sua carriera criminale iniziò nella Milano del primo dopoguerra dove, fra le macerie dei bombardamenti, le mense dei poveri, la borsa nera e un futuro incerto per molti, cominciavano ad aggirarsi le prime belle auto dei nuovi ricchi. Polizia e Carabinieri erano ancora lontani dal riorganizzarsi, e non erano ancora in grado di amministrare a dovere ordine e giustizia. Insieme al suo amico Sandro Bezzi fondò la “Banda dell’Aprilia Nera“, che prese nome dalla Lancia Aprilia nera targata 777 (come il centralino della Questura, il nostro 112) con cui si prese a lungo beffa della polizia. L’Isola era la sua base, il resto della città il suo terreno di caccia. Lui e i suoi compagni formavano posti di blocco improvvisati per imporre un dazio ai più abbienti, rapinavano banche, realizzavano scorrerie aventi come bersaglio i corrieri della borsa nera o gli  industriali che si arricchivano con essa… ma non usarono mai le armi che spesso tenevano in pugno. Nel quartiere sapevano tutti chi erano i “banditi” ma nessuno li denunciò mai. Al  termine della scorreria “quelli dell’Aprilia” si trovavano al bar di via Borsieri 24, e dopo avere diviso fra di loro quanto gli occorreva distribuivano il resto a tutti i bisognosi della zona. La carriera del bandito con il pizzetto alla bersagliera che tutti salutavano nel quartiere perché faceva del bene alla povera gente, si concluse il 26 febbraio 1946. Dopo tante spettacolari inseguimenti in auto e tante rocambolesche fughe per i ravvicinati tetti delle case dell’Isola, alla fine la polizia una sera lo raggiunse. Un testimone raccontò così la sua cattura: “…quando hanno sparato al Barbieri, lui veniva di volata da via Sebenico, con la macchina ha attraversato la piazza Minniti inseguito dalla polizia che gli ha sparato sull’angolo di via Porro Lambertenghi. Barbieri riuscì a scappare lasciando macchie di sangue sul selciato. La gente che lo vedeva fuggire gli batteva le mani!”. Quella sera a morire fu il suo amico Sandro Bezzi mentre lui fu catturato qualche ora dopo ed ebbe fine la storia del Robin Hood dell’Isola. Venticinque anni dopo, nel 1971 fu scarcerato (una pena impensabile da scontarsi al giorno d’oggi per chi non ha ucciso nessuno) e gli

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