Nome dell'autore: Giuseppe Mele

Studi tra Bologna, Firenze e Mosca.Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore Agenda news UilCom Capitale. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2017, Smartati Goware 2020, Covid e angoscia 2021

Salgari e Brooke non si (ri)conoscono nell’isola sommersa

Anche la Malesia ha il suo fim epico all’hollywoodiana. Giustamente Ai confini del mondo, del regista statunitense Haussman in una cineproduzione che vede, nell’anno del loro massimo attrito, ancora collaborare angloamericani, malesi e cinesi, è incentrato sul grande eroe locale, James Brooke, il Rajah bianco, sterminatore di pirati. Al terzo tentativo la Brooke Heritage Trust dei discendenti, l’ottantunenne artista Lionel ed i figli Jason e Laurence, tornati a Kuching, capitale del Sarawak fondata dal trisavolo, solo nel 2011, è riuscita a mettere sullo schermo le gesta del sovrano inglese d’India. Il primo tentativo era stato il progetto di documentario The life and times of Sir James Brooke of Sarawak del filmaker bolognese Cavazza per la sceneggiatura dell’artista Zecchini. Poi la Margate House Films aveva annunciato nel 2017 la cinebiografia per mano del regista russo Bodrov ma solo ora esce il titolo (non proprio nuovissimo, Edge of the world, il confine del mondo) grazie al pool riunitosi attorno all’amministrazione di Sarawak che ha potuto contare sulla digitalizzazione dell’archivio di Brooke. Non deve meravigliare l’entusiasmo con cui sono stati accolti gli ultimi (non) pretendenti al trono bornese; malgrado che due passi, nel minuscolo Brunei ci sia il sultano Hassanal Bolkiah, il monarca più ricco della terra, nella più grande palazzo del mondo, che ha introdotto ultimamente anche una sharia stretta e che è pure Ammiraglio onorario della Royal Navy. Nell’ampia parte del mondo, quasi tutta non europea, influenzata dagli anglosassoni, James Brooke resta un mito su cui escono biografie a getto continuo e che hanno ispirato una messe di autori da Conrad a Coppola, da MacDonald Fraser a Kipling. Nell’epoca del politicamente corretto, è tornata utile la riscoperta della sua omosessualità, che prima veniva fatta passare per un’invalidità dovuta alle ferite ai genitali, ricevute nella guerra anglo birmana del 1825. Le sue passioni vengono ricordate in India, Uk e Malesia dove si strinse ad un nobile cortigiano del 23° sultano del Brunei, Saifuddin II. Questo amore nel film diventa la passione omosessuale per Brooke (non ricambiata) dello zio del sultano, il Rajah Hashim, che nella realtà storica fu un prezioso alleato per l’inglese d’India, permettendogli di conquistare, poco a poco, la corte malese, con l’esplorazione di più di cento chilometri di costa del Borneo e del fiume Sarawak, con la repressione di quella che oggi chiameremmo rivolta sindacale dei minatori di antimonio e carbone contro Hashim e con la vittoria su nemici molto diversi tra di loro come i pirati della costa, i daiacchi ribelli detti uomini serpente, capitanati dal rivale Rajah Mahkota, ed i cinesi repressori degli stessi daiacchi. Per altro verso anche il quadretto romantico dell’amore dell’avventuriero per la bella malese Fatima, nipote del sultano, che Brooke sposò con rito islamico, avendone la figlia Fatima Brooke, risulta utile per sottolinearne l’anticolonialismo addirittura antinglese (di un Sir, cavaliere della Regina!), il pacifismo, l’amore per i fidati daiacchi tagliatori di teste, storicamente oppressi da cinesi e indiani, che Brooke preservò anche dai tentativi di conversione dei missionari cristiani (ma i civil servant erano tutti d’origine inglese). La passione del Rajah bianco per le effettive bellezze naturali della jungla sarawakiana, su cui si sofferma il film, è confermata da naturalisti come Wallace, Hooker ed il nostro botanico fiorentino Beccari che gli dedicarono le scoperte di nuove farfalle, piante carnivore e ben 130 specie di palme. Nell’avanzata colonialista ottocentesca in Asia, in presenza di regni organizzati e secolari, era una prassi la conquista mascherata da concessioni e rapporti di vassallaggio ad opera di coloni, armatori, militari e commercianti avventurieri. L’americano Lee Moses si prese dal Brunei in concessione il Sabah o Nord Borneo, dalla baia di Kimanis al fiume Seboekoe (passato poi al compatriota Torrey, Maharaja del Borneo del Nord, poi nel 1878 all’austriaco von Overbeck, Maharajah di Sabah e raja di Gaya e Sandokan, infine nel 1891 al britannico Dent). Anche il sultanato arabo di Solu fece la stessa fine mentre quello di Sambas che contendeva a Brunei la sovranità virtuale sull’inesplorato Sarawak, andò agli olandesi. Brooke era quindi in buona compagnia. Il Royalist, corvetta armata da 6 cannoni, gli permise di dettare legge sul Sultano, in difficoltà tra ribellioni, potenze coloniali e sfruttamento minerario di oro e carbone su terre in effetti poco conosciute; e gli venne concesso per 2500 sterline un Raj, governatorato sotto teorica autorità imperiale. Se non era pacifista, come lo descrive il film, Brooke però era nipote acquisito di Saifuddin II, uno di famiglia, insomma; il che gli permise di ottenere la piena sovranità su Sarawak da un lato, mentre si rifiutava, dall’altro, di cedere il trono alla Compagnia delle Indie cui consegnò solo l’isola di Labuan di cui venne nominato governatore. La sua vicenda, unica e da romanzo, diede origine ad una dinastia, durata un secolo. fino all’abdicazione di Anthony. Proprio come i monarchi inglesi della regione afghana del Kafiristan, raccontati da Kipling ne  L’uomo che volle farsi Re del 1888. La sua corte nel palazzo Astana a Kuching era pittoresca e stravagante, carica di esotici arredi europei e cineserie, con tutta la varietà delle tribù bornesi e la fedele ed adorante guardia daiacca acconciata con le decorazioni di guerra. Per gli inglesi nati in India come James, originario di Benares sulle rive del Gange, già sottufficiale del VI° Fanteria Indigena dell’esercito del Bengala della Compagnia delle Indie orientali era normale l’abitudine alle pratiche schiavistiche, poligami religiose locali, una promiscuità fisica e mentale assai poco vittoriana, che poi non impediva di garantire ordine e repressione. Ad un certo punto questo caravanserraglio acristiano scatenò il discredito inglese contro l’avventuriero sottufficiale, troppo poliforme. Pacifista che sparava con cannoni navali; scapolone gay, sposato musulmano, con due figli (oltre Fatima, ebbe George da una cameriera inglese riconosciuto tardivamente); Sir colonialista alfa ma nipote del Sultano. L’anatema però glielo diede nel 1896, Salgari ne I pirati della Malesia, terza opera del suo ciclo indomalese. Lo scrittore veronese tratteggiò il personaggio, realmente esistito, a trent’anni dalla sua morte avvenuta in Inghilterra mentre a Sarawak regnava il nipote Charles. L’ira salgariana non era

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La nebbia lontana dopo le elezioni russe

L’Assassino ha incontrato il suo Accusatore e l’ha convinto a firmare un piano congiunto contro i soliti hacker. Soprattutto ha ottenuto il consenso americano al Nord Stream II, capitanato da un vecchio collega di spionaggio del neozar russo. Poi la Merkel all’abbandono del suo ruolo storico di leader europa e tedesca, ha salutato il partner russo, con il lascito, direttamente sul suolo teutonico, di un gasdotto potenziato, che raddoppierà le vendite energetiche russe nell’Europa più ricca. L’UE nel ’90 importava da Mosca il 55% dell’energia necessaria; era scesa al 27% nel 2010, risalita al 30% proprio dopo le sanzioni ed oggi tornata ai valori quasi massimi del 41%. Dopo l’abbandono del nucleare tedesco, si impennerà ulteriormente. I prossimi passi del Macron francese, destinato ad una veloce scomparsa dalla politica transalpina, lo condurranno in braccio a Mosca, ora che l’ira parigina per gli accordi militari tutti anglosassoni del Pacifico è al massimo. Le elezioni per la Duma non potevano tenersi in un momento migliore per Putin, dopo il dribbling del voto recente americano e delle decisioni fondamentali tedesche, prese ancora prima del loro voto. E soprattutto a poche settimane dal disastro afghano Usa, terribile per sostanza ed ancora più per forma.  Così lo zar, dopo essersi garantito il Cremlino teoricamente fino al 2036, ha presentato il suo partito, o meglio di Medvedev, al voto popolare. Per un annetto, l’Europa ha evocato il de profundis per Edinnaia Rossia e Limes di Caracciolo si è spinta a vaticinare un futuro a pezzi per il gigante orientale. Quasi un decennio di sanzioni diplomatiche ed economiche contro il paese, ma anche contro 155 persone (grandi politici, militari, consiglieri municipali, giornalisti, burocrati, imprenditori, qualche starletta portavoce e pure lo scomparso Kobzon, il Sinatra russo), l’esclusione dal G8, contestate elezioni bielorusse con strascico di repressioni anche aeree e la colpa storica (assieme ai soliti tedeschi) dell’ultimo conflitto mondiale hanno costituito la base per l’indignazione massima per le persecuzioni subite dall’oppositore Navalny, erede del caso Khodorkovsky, (contestato tentativo di omicidio, cura tedesca, nuova condanna e nuovo imprigionamento in Russia, ulteriori  proteste  e repressioni). Una sorta di drole de guerre froide senza sbocco. Il tempo della condanna morale è stato però scelto male, troppo in anticipo. Passate le forche caudine americane e tedesche, tra le inutili proteste polaccobaltiche, mentre cresceva il pericolo cinese, le elezioni russe del 17-19 settembre con l’ineguagliabile cinismo russo, hanno visto Navalny in galera, il suo partito, Russia del futuro, considerato terrorista ed i social occidentali obbedienti nel bloccare siti, chatbot, messaggi dell’Umnoe golosovanie, lo Smart voting, che avrebbe dovuto coalizzare tutti i nemici del partito putiniano di maggioranza alla Duma. Il voto elettronico, attivato a Mosca per due milioni di elettori ed in varie altre regioni, doveva facilitare questa strategia ma invece ha finito per risultare d’aiuto al Cremlino. Pur nel calo della partecipazione di un elettorato, al 51%, che guarda alla politica con scetticismo, nell’ineluttabile e rassicurante stabilità, Edinnaia Rossia è passata dal 54,2% del 2016 al 49,79%, mantenendo la maggioranza parlamentare con un risultato simile al 2015. Fra i 450 deputati, può contare su 320 seggi (con una perdita di venti unità), cui si aggiungono i 23 liberaldemocratici del populista Girinovsky, sceso al 7,48%, i 18 di Russia giusta (7,41%) di Mironov, la coalizione cresciuta attorno a Rodina (madre patria) ed i 15 di Gente nuova (5,36%), formazione ecologista civetta del profumiere Naciaev, rivolta ai giovani. Gli sforzi liberali hanno aiutato i 60 deputati comunisti di Ziuganov, cresciuto al 18% (ma non del 25% come si era ipotizzato immediatamente dopo il voto). Un seggio cadauno tocca allo storico partito liberale Iabloko (Mela) all’1,3%, a Piattaforma Civica ed al partito della Crescita di Titov e Schnurov. Anche la proibita formazione navalnyana della Russia del futuro avrà il suo strapuntino, un eletto nelle liste uninominali. Gli strali americani, europei, delle Ong e dell’opposizione comunista si sono ora concentrati sulla decina di migliaia di denunce di broglio, di pressioni e violenze e sul lento meccanismo di comunicazione centralizzata del voto che, con la scusa del voto elettronico, ha smentito i trend del primo giorno di voto. Tutti i lai per il Donetsk in guerra muoiono davanti alle partite di Champions dello Shakhtar (Shakhtyor, minatore) Donetsk il cui portiere Piatov ha fermato l’Inter, anche se l’Uefa ha sostituito la sponsorship del colosso Gazprom con più ordinario Justeat. Fondata in epoca stalinista, con il nome Stachanovec, in onore del minatore ucraino Stachanov, la squadra del Donbass dal 2002 ha vinto numerosi campionati, coppe europee ed è campione in carica, giocando da anni lontano dalla sua regione e dal bel stadio, nuovo e tirato a lucido, della Donbass Arena. Ha dovuto spostare i campi di allenamento prima all’altro capo del paese, a Leopoli a 1000 km, poi a 300 km nello stadio del Metalist di Kharkiv (tra l’altro fallito) ed ora a Kiev. I brasiliani, di cui è farcita la squadra non risentono troppo dei cambi di geolocalizzazione, come neanche gli allenatori italiani che la guidano, ora De Zerbi, Nevio Scala al tempo del primo titolo nazionale. Il finanziatore, il miliardario Achmetov, dal nome tipicamente tartaro, rilanciò lo Shakhtar dall’amico Bragin, criminale poi saltato in aria. Paradossalmente l’imprenditore zar del Donbass, la cui azienda Sistema agglomerato di business è gemella della Sistema russa, è paradossalmente l’ex sostenitore del governo filorusso e padrone dell’esercito ribelle ed insieme l’unionista vicino a Kiev che vince i campionati. Il presidente ucraino Zelenskyi ondivagamente tiene alla sua amicizia per poi definirlo manipolatore, in Tv. L’ingigantita figura dello Smart Navalny e delle rivolte di piazza non hanno quindi lasciato traccia sulla Demotura russa, anche se i commentatori più evoluti si affrettano a ricordare che il sistema invecchia con l’età del suo presidente (che nel 2036 sarà 84enne). Certo a strascico di queste elezioni ci saranno ulteriori sanzioni contro personaggi politici e non, del Donbass e della Crimea. Nessuno toccherà però il mufti Kadyrov, padrone della Cecenia, che per il partito di Putin ha preso il 98,5% dei voti. Magari verrà sanzionato anche Urgant, la

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Quell’islam tutto moda all’uzbeka

Il karakul, agnello persiano, sgambetta con occhio docile e passo elegante tra bellissimi fiori di loto. Il suo manto dal pelo scuro si svolge, si tesse e si indossa, praticamente, come seta. È la pelliccia rapida, futurista delle bisnonne; di un unico colore, e multicolore nei suoi riflessi di petali intarsiati. Il suo successo nella moda è stato vichiamente un corso ed un ricorso storico fino allo scontro frontale con l’animalismo. I persiani audaci e tinti colorati di Tivioli in futuro saranno ecologici. Perché l’astrakan, la pelliccia non superflua, non morirà mai, come l’omonima antica tartara capitale del Turkestan sulle sponde del Volga caspico, nella russa regione di Bukhara, dell’ex canato di Xacitarxan. Non c’è solo il pelo piatto lucido, seguono i contrasti cromatici, le geometrie, a fasce più o meno larghe alternate su sfondi predefiniti, del tessuto splendido che risponde al nome di Ikat. Combinando le sete, l’oro bianco dei cotoni, il cashmire di Samarcanda e Buchara, fortezze da deserto dei tartari, l’ikat tramanda l’altissima qualità dei tessuti, eterno miraggio mesopotamico e persiano per i mercanti occidentali che ne erano ossessionati come dall’indaco. Il sacrificio fatto per esaudire il desiderio è stato altissimo; sull’altare della moda è stato donato, regalo votivo, un mare, il Lago d’Aral, già secondo specchio d’acqua dell’Asia Centrale (dopo il Caspio). Per produrre un milione annuo di tonnellate di cotone, 50 kg ad abitante, già nei tempi sovietici, vennero deviati fiumi del lago per irrigare nuovi campi intensivi di cotone; poi il paese, sesto produttore al mondo, diventò da indipendente, il secondo esportatore di cotone, dietro solo agli Usa. Non c’è studente o insegnante che non diserti le aule in autunno per correre a raccogliere l’oro bianco. Intanto però, senza flussi d’acqua, con l’evaporazione naturale e l’uso di diserbanti si sono accumulate irreversibilmente sul fondo del lago d’Aral sabbia e sostanze tossiche che hanno condotto quasi al prosciugamento, con conseguenze sulle attività di pesca e l’innalzamento delle escursioni termiche della regione. I 68mila km2 originali del lago salato di origine oceanica, al confine tra Uzbekistan e Kazakistan sono oggi 7mila. Il delta del fiume Oxus, modernamente Amu Darya, si è ristretto per i canali di irrigazione, tra cui il più grande, quello del Karakum, che corre dall’Amu Darya fino al Mar Caspio. Il consumo d’acqua, particolarmente fondamentale per la moda, determina problemi ambientali spesso sottovalutati. Ci vogliono 2700 litri di acqua per una sola t-shirt mentre un jeans richiede l’acqua necessaria al fabbisogno umano di acqua di 100 giorni. Karacul, Ikat, Aral, Bukhara, astrakan, cotone, l’Oxus tutto questo, nel bene e nel male, sono l’Uzbekistan, terra persiana, greca, russa del mitico Turan, sito ariano dei turcomanni contrapposti all’Uran persiano zoroastrista. Per forza di cose, l’Uzbekistan era destinato ad essere fonte di idee estetiche e fornitore della moda; fino a farsene protagonista esso stesso. Così è nato il New Uzbek Fashion degli Ikat di Kamola Rustamova, Surayo Rashidova e Gayratkhon Khujamuratov fantasmagoricamente colorati e intrecciati come tappeti. Grande e lugubre protagonista è stata la stilista e cantante GooGooSha, al secolo Gulnora Karimova,. figlia del defunto presidente monarca uzbeko Karimov. La donna per vendicarsi dell’ex marito, gli ha chiusa l’azienda, imprigionati e deportati i parenti in Afghanistan, anche con intervento di killer. Già classificata una delle peggiori figlie del mondo, Gulnora è stata messa agli arresti domiciliari dal 2014. Il contesto politico ha facilitato lo scambio economico e la dialettica estetica. Le nuove ma vecchie elites ex-comuniste delle repubbliche turcomanne e russofone (Karimov, Rahmon, Nazarbayev, Emomali) hanno mantenuto, anche con la forza, regimi laici, partecipi sia delle intese occidentali che del Patto di Shangai russocinese. L’ Uzbekistan ha offerto basi aeree agli USA durante la guerra in Afghanistan, ha partecipato al Northern Distribution Network in Afghanistan ed ha sostenuto gli accordi di Doha per il ritiro americano. Insieme inviava combattenti in Afghanistan fra le fila di Tawhid wa Jihod, Daesh ed al-Nusra. L’erede del primo presidente, al potere per 26 anni Karimov, è dal 2016 Mirziyoyev, già primo ministro dal 2003, che ha lanciato un programma parlamentare di diritti umani senza più repressioni politiche, contando sulla ricchezza potenziale delle grandi riserve di gas e petrolio per le quali opera l’ENI. Non è semplice mantenere l’eredità laica sovietica in un contesto di vincente islamismo. Aiutano però le madrasse scite mistiche ispirate al sufismo, largamente tollerante e tradizionalmente inviso ai fondamentalisti sunniti, in un paese molto popoloso dell’area, non quanto l’Afghanistan (il Kazakistan è già un grandissimo esportatore mente il Kirghizistan detiene la più grande riserva mondiale di uranio). Il Gorbaciov dell’Uzbekistan (secondo la definizione del prof. Fumagalli Violence and Resistance in Uzbekistan, Routledge, 2017) rischia, senza tagliare duecento teste, di lasciare agli islamisti campo libero di diffusione e propaganda che possono raggiungere il consenso generale locale come si è già visto in situazioni geopolitiche simili. Tra le riforme uzbeke, l’acceleratore è spinto su moda e design. Il locale NIFAD ha stabilito contatti diretti con la famosa Scuola di Moda Polimoda di Firenze mentre accordi sono stati stabiliti tra l’Uzbekistan Textile and Garment Industry Association ed il Milan Fashion Center e tra l’Università Europea di Design (UED) di Pescara e il Tashkent Institute of Textile and Light Industry partecipando alla Tashkent Fashion Week. Tra i milioni di giovani uzbeki, orfani del padrepadrone. generalmente destinati a lavori umili in Russia, si fanno largo dunque anche gli stilisti ed i designer, forti di tradizioni secolari multiculturali, di ricami decorati, di tessuti floreali, di una straordinaria artigianalità, attraverso numerose cooperazioni con aziende italiane. L’abbigliamento uzbeko esprime storia, cultura, orgoglio e gloria dello stato. Divenuta una delle locali forme d’arte più popolari, il design uzbeko si ripropone, tra neoetnico e haute couture, come il ritorno dello stile che meravigliò González de Clavijo nel Viaggio a Samarcanda alla corte di Amir Temur detto Tamerlano. L’ingegnosità del re astronomo Ulugh Beg, del noto Avicenna e di Al-Khorazm, inventore dell’algebra, persa nella notte dei tempi e l’eleganza sovrana della shapka corona di karakul, adorna di gemme, indossata dagli scià persiani e dagli aristocratici russi ed

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Meeting con l’assassino

Meeting con l’assassino. Ora, Biden non sa come prepararsi per l’incontro con l’Assassino. Forse con una nutrita schiera di guardie del corpo, dietro lo scudo delle quali colloquiare o ancora forse con un giubbotto antiproiettile molto tecnologico. L’anziano esponente democratico teme anche bevande, cibi e cerbottane tanto più che i russi hanno minacciato un summit lunghissimo, di 6 ore, per prendere probabilmente Biden per fame. L’uomo più forte del pianeta, con al seguito trenta eserciti nell’armata che è stata definita la più potente della storia, ha i suoi timori. Gli alleati non hanno attenuato i timori, in particolare i tedeschi, i più deliziati della definizione presidenziale di Putin killer. Il comune dolo tedescoamericano per i diritti umani e per la persecuzione dell’oppositore russo Navalny ha evitato, per contrappasso, sanzioni sul Nord Stream 2, la Nord Stream AG che lo costruisce e sul suo ceo Warnig, già agente Stasi e collega di Putin, quand’era spia a Dresda per il Kgb. All’incontro tra i due presidenti del 16 giugno non ci saranno così fughe di gas. Il gasdotto, anzi, il suo raddoppio, che unisce Russia e Germania, nella tradizione di Rapallo, caccia il resto dell’Occidente dall’Europa centrale e costituisce oggettivo ostacolo all’avvicinamento ucraino. Paradossalmente lo fa in nome del principio cardine occidentale, quello ecologico. L’eliminazione del carbone tedesco entro il 2030 è possibile solo grazie ai Nord Stream. L’UE nel ’90 importava da Mosca il 55% dell’energia necessaria; nel 2010 il 27%, dopo le sanzioni del ’14 il 30% ed oggi il 41%. Il vincolo ecologico vale più di tutte le sanzioni e lotte diplomatiche. Putin in Svizzera si siederà con il punto principale già incamerato, e non per sua richiesta. Est ed Ovest si incontrano prima e dopo le elezioni. In Russia a settembre si vota per la Duma. A luglio ’20 si è svolto il referendum sulle modifiche costituzionali che permette a Putin altri due mandati seieannali (nel 2024 e nel 2030). Sulla carta potere fino a 86 anni, per 36 anni, superando i 29 anni di Stalin, ma non i 43 di Pietro il Grande. Ogni volta che si vota in Russia, i sondaggi occidentali sembrano quelli di Rai3 o la 7 per il Pd. Prima rilevano il calo del partito di maggioranza, Edinnaya Rossia; poi mancata la previsione, passano ai brogli, imbrogli, regali e imposizioni. Si resta, arcigni e sospettosi, sul 76,69% per la terza elezione di Putin nel ’18; sul 48,77% nelle elezioni locali del ’20, dove Russia Unita ha perso solo a Tomsk, a Novosibirsk e Tambov, a favore di candidati vicini a Navanlyj, ma anche dall’opposto di Rodina (Madrepatria). La riforma, approvata dal parlamento e dalla Corte Costituzionale, poi votata a luglio ’20, è passata con il 77,9% sul 64% degli elettori. Sembra quasi suggerita da Conte, infatti elimina il vincolo dei due mandati. L’avvelenamento di Navalny da Novichok, in volo di ritorno in Russia, dopo le cure tedesche, il suo ennesimo incarceramento in Russia, le rivolte siberiane e dell’estremo oriente hanno fatto esplodere la pubblicistica occidentale, scioccata poi dalla messa fuorilegge del partito anticorruzione. Anche nel 2011 si erano diffuse proteste in tutta la Russia, veicolate dall’uso social di VKontakte su Internet. Il vaso di Mosca, preso dal lato delle rivolte di piazza, ha un fondo infinito, come ci ha ricordato Graziosi nell’unica vera storia dell’Urss in circolazione, nella quale ha elencato le tantissime sollevazioni avutesi durante il potere comunista che mai ne venne intaccato. Alla fine però le crepe sulla demotura russa si limitano al consenso sceso al 60%, in un paese dove il Covid ha lasciato 650.000 morti (tanti ma meno di Usa e Brasile) nell’ambito di un sistema sanitario deficitario malgrado la diffusione del proprio vaccino fin dall’agosto ’20 (che Putin ha fatto somministrare anche alla figlia); un paese dove il Pil previsto è più 4% a 4,5 punti di inflazione. Inutile sperare sulla fine del consenso. Al summit il presidente russo va con un forte mandato elettorale, magari con la pecca di sostenere quello bielorusso rieletto con elezioni assai più discutibili. Sarà più che ottantenne se vincerà tutti i mandati possibili. Biden è già ora quasi ottantenne, al primo mandato dopo mezzo secolo da congressman. E’ l’America che è divisissima su idee, visioni, politiche, non la Russia. Così il problema elettorale si sposta da Mosca a Washington, dove si temono le ombre del Russiagate in ogni dove. Perché in 81 milioni hanno votato per Biden ma 74 per Trump (34% astenuti) ed i due elettorati non sono mescolabili soprattutto se la realpolitik conduce Biden a proseguire le politiche trumpiane. L’incubo dell’hacker russo è perfettamente legale. E’Kasperskj il cui antivirus ha conquistato il mercato Usa. E’ Snowden le cui rivelazioni e fuga nel 2013 vengono protette in Russia. E’ il Codice Durov descritto dal giornalista Kononov. I fratelli Durov, Pavel e Nikolai, l’uno vissuto a Torino, l’altro a Bonn, inventano nel 2006 da palazzo Singer sulla prospettiva Nevski, VKontakte, piattaforma universitaria che si fa grande social network, più semplice, più veloce, condensato di YouTube, Facebook e Spotify.Malgrado l’amicizia con Surkov, ideologo di Russia Unita, nel 2012 l’United capital, fondo vicino al Cremlino, compra la maggioranza di VK; Pavel vende il suo 12% e nel 2014 non è più Ad. Lascia un social da 500 milioni di iscritti con il logo del cane che pernacchia il potere. L’anno prima però Pavel, stesso anno di nascita di lancia Telegram, l’app di messaggistica istantanea all’insegna della privacy più stretta. Ragion per cui la nuova società si sposta con il proprietario, Isole americane Saint Kitts e Nevis, Finlandia, Indonesia, ora Dubai. Gli avvocati rispondono da Berlino. Se VK era russo, ancora oggi frequentato da occidentali putiniani, Telegram è globale, vicino a 500 milioni di utenti; minacciato parimenti in Cina, in Iran, in Europa ed a Mosca. In Russia non c’era un Icann ed il Roskomnadzor, l’organo sulle comunicazioni, si è evoluto inseguendo Vk e Telegram. Alla sbarra alla Duma, Pavel nel ’18 non cede sull’identità dei clienti; al contrario di Zuckerberg che al Congresso

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