Editoriali

La disperata follia di via Farneti

La disperata follia di via Farneti. Non sapremmo come definirla altrimenti, se non come una disperata follia quella manifestatasi in via Farneti: una rivolta a suon di raccolte firme e esposti si è scatenata per la riqualificazione di un palazzo. Volevano ridipingerlo tutto di nero, ma ecco arrivare gli immancabili cittadini arrabbiati. I difensori della morale ormai sono fuori moda, nella città del fashion li abbiamo sostituiti con i difensori della tinta. Secondo alcuni di loro, a quanto pare perché per fortuna almeno non si conoscono i nomi dei promotori, non esistono palazzine come quella tinte di nero a Milano. Una disperata follia. Primo, saremmo davvero curiosi di sapere se questi cittadini difensori dell’altrui tinta conoscono davvero ogni singola palazzina di Milano. Secondo, saremmo altrettanto interessati di che titoli possono fregiarsi questi individui. Terzo, sarebbe altresì interessante sapere come spendono la loro vita questi personaggi da avere il tempo di ergersi a difensori del decoro cromatico altrui. Quarto, sarebbe da approfondire la legge che permette a un gruppo di cittadini qualunque di decidere il colore delle case degli altri. Quinto, un’iniziativa del genere dovrebbe far riflettere sulla mancanza totale di valori seri che causa crociate sul decoro cromatico. Queste persone stanno bene? Secondo noi sono vittime di una disperata follia in via Farneti. Un male che sembra aver contagiato la maggior parte della società attuale. Si fanno petizioni e battaglie sulle questioni più assurde per una società sana. Si odia con una facilità disarmante. Un grande cantautore milanese aveva intercettato un primo passo in questa direzione, ma declinandolo in versione ironica: il sintagma “quelli che” era usato da Jannacci per ridere dei piccoli difetti delle persone. Oggi invece ogni problema diventa un’emergenza di inconcepibile gravità. I social network avranno una parte di responsabilità, ma ancora una volta temiamo che siano le persone di fronte allo specchio a essere colpevoli. C’è stato uno scivolamento inesorabile e latore di disperazione che ci ha portato a essere sempre più folli. Si propongono pene esemplari per ladri di biciclette e per padroni di cani incivili. Pochi giorni fa una signora per strada ha usato parole irripetibili contro due madri con passeggino perché occupavano troppo spazio sul marciapiede e lei aveva dovuto scostarsi (per circa 6 secondi) per lasciarle passare. La speranza è l’ultima a morire, ma non sembra avere moltissimo tempo ancora. Scivolando scivolando siamo precipitati in una disperata follia come quella di via Farneti.  

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A suon di mazzette! Le mafie si combattono partendo dal Nord Italia e non dal Sud

di Biagio Maimone  – Le mafie, definite con varie denominazioni, devono essere combattute, se veramente si vuole combatterle, partendo dai territori del Nord Italia, in cui esse, grazie alla  fiorente condizione economica degli stessi, affondano le proprie radici. Per penetrare negli ambiti rigogliosi del Nord Italia le varie organizzazioni mafiose si avvalgono di coloro i quali detengono il potere economico o meglio il potere politico, che decide in merito agli appalti pubblici. E’ facilmente constatabile che nel Nord  Italia pullulano affari, raccomandazioni, tangenti, favori e assunzioni privilegiate. La complicità dei politici del Nord, corruttibili facilmente dal dio denaro, si esplica mediante la scelta dei Vertici  delle Aziende pubbliche ai quali è demandato il compito , lautamente remunerato, di  decidere a chi affidare i vari appalti , ovvero operazioni economiche analoghe . Le mafie, pertanto, nel mondo contemporaneo, indossano la giacca e la cravatta, che consente loro non solo di passare inosservate,  ma di rappresentare l’eleganza “corrotta” di molti  affari economici . Non serve loro ricorrere a sparatorie esemplari, come nel passato: essi uccidono la meritocrazia e l’onestà a suon di “mazzette”. Sfatiamo il mito che la mafia prolifera ed agisce nel Sud Italia, cerchiamola, invece, e la troveremo certamente là dove si esprime in modo eclatante il potere della politica , ossia il Nord Italia.  

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Cosa resterà di Forza Italia?

Cosa resterà di Forza Italia? La domanda segue il blitz di Giovanni Toti a Palazzo Pirelli nel giorno di riunione del Consiglio regionale. Il governatore ligure e neo candidato a fondare un qualcosa che assomiglia molto a una Forza Italia bis è ormai lanciatissimo. Pochi giorni fa ha annunciato una riunione nazionale a Roma per vedere chi ci sta ad abbandonare definitivamente la guida di Arcore. Ieri si è presentato sotto il naso di Berlusconi, proprio nella sua Milano convocando gli eletti forzisti. Vero è che qualcuno ha rifiutato la convocazione di Toti, anche se non sono nomi molto di peso, ma in tanti invece non hanno avuto nemmeno bisogno di una telefonata: appena saputo che il governatore ligure era a Palazzo Pirelli si sono diretti a passo di marcia verso di lui mettendosi volentieri in fila per aspettare il momento in cui gli sarebbe stata concessa udienza. Sono quindi le truppe che vanno verso di lui, senza nemmeno bisogno di squilli di tromba. Tra l’altro non si parla solo di nomi di secondo piano visto che pare ci fosse pure il presidente del Consiglio regionale Fermi. Ma se Fermi vuole lasciare Forza Italia non dovrebbe dichiararlo apertamente? Invece ieri si è svolto tutto in gran segreto, tranne che per i lettori dell’Osservatore, ma a questo punto un partito che anche a Milano è stato ridimensionato potrà reggere a una forza di attrazione come quella di un nuovo soggetto politico guidato da Toti? O invece si scioglierà come neve al sole lasciando un pugno di dirigenti senza più iscritti? Il momento non è semplice per gli azzurri, bloccati come sono da quadri impegnati per lo più a cercare di salvare il posto. Berlusconi forse dovrebbe dare retta a chi ha chiesto una gestione collegiale, coinvolgendo tutti gli eletti per ritrovare il senso di comunità smarrito. Altrimenti cosa resterà di Forza Italia?

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L’inconsistenza di una politica del lavoro

Parlano di parole, dimenticano i fatti. Quanto siano ormai stremati i giornali italiani lo si capisce dalla mancanza di fatti consistenti nelle cronache odierne. Abituati ormai solo a parlare di parole politiche, di questo o quel personaggio diventato per un periodo nemico numero uno, sono disposti a tutto: persino il Corriere e la sua firma Fubini sono stati accusati di aver inventato una notizia pur di andare contro il governo giallo-verde. Uno sputtanamento, non ce ne vogliate ma non c’è altro termine, pure di una delle ultime istituzioni sociali e culturali del Paese di cui Fubini e il suo direttore Luciano Fontana dovranno portare il peso. Perché il punto sembra sia diventato solo prendersela con qualcuno, possibilmente con le spalle non coperte da un qualche potente. Salvini e Di Maio possono contare su due gruppi solidi di voti e di amici fidati, ma sicuramente non sono riconducibili a potentati vari. Gli stessi invece che hanno rimbambito così tanto la stampa da lasciarla miope: solo in Lombardia, come raccontiamo oggi, ci sono 800 lavoratori a rischio licenziamento. Nei giorni scorsi un decreto del Ministro Toninelli ha chiuso di fatto 80mila piccole aziende perché i tassisti (nota categoria che si fonda sull’illecito traffico di licenze) lo hanno imposto con una legge liberticida. Fastweb ha appena licenziato 70 persone sempre nel famoso cuore economicamente pulsante della lombardia. Il sindaco di Milano in tutto questo pensa a rintuzzare le sparate di Salvini perché prova a diventare leader nazionale, intanto il suo pugno chiuso gira negli occhi di chi si trova a contare meno di niente: i vecchi sostenitori delle sinistre come i lavoratori subordinati hanno dunque ben donde di abbandonare il rosso per altri colori. Alle sinistre non importa più del loro destino, la battaglia che vogliono vincere è per i titoli dei giornali e per un posto nei salotti che contano. Creare lavoro e tutelarlo non è più una priorità, tant’è che l’ultimo governo di centrosinistra aveva messo Carlo Calenda al ministero dedicato. Calenda, noto Che Guevara. Quando la politica e i giornali torneranno a occuparsi di questa emergenza? La crisi non è finita, non per tutti. I licenziamenti continuano e se non ci si muove ora, la prossima ondata sarà peggio della prima perché sono già finiti i soldi per tamponare la situazione.

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Taxi, nuove licenze e le resistenze di una lobby

La lobby dei tassisti si è subito irritata. Il Comune di Milano ha annunciato di voler rilasciare nuove licenze per aumentare il numero di auto bianche per l’aumentato numero di turisti, ma soprattutto perché (come spesso accade in Italia) in realtà i tassisti al momento lavorano solo negli orari che gli fanno comodo. La notte e il mattino presto ci sono punte di chiamate inevase che sfiorano il 50 per cento. L’ultimo Salone del Mobile poi ha mostrato per l’ennesima volta l’inadeguatezza del servizio offerto: code su tutti i lati della stazione Centrale e fuori dai principali snodi della manifestazione. L’ennesima dimostrazione di come la lobby dei tassisti punta a non far entrare nessuno nel mercato che pure ci sarebbe. Il motivo è sempre lo stesso: con la concorrenza gli toccherebbe lavorare, non esagerando i prezzi e rendendosi disponibili in tutti gli orari come prevederebbe la licenza di cui sono in possesso. Se non entra nessun altro, possono continuare a ricattare il sindaco e tutta la città. Hanno talmente tanti appoggi politici che persino Sala (diciamo persino perché se c’è uno che si è sentito onnipotente è lui) ha subito piegato la testa affermando che anche sulle nuove licenze si procederà ma concordando i vari passaggi. Continuiamo a chiederci da anni come sia possibile assistere a un tale pietoso spettacolo: le licenze non sono cedibili in teoria perché i Comuni le rilasciavano gratuitamente, eppure negli anni si è sviluppato un mercato ricchissimo. A ogni piè sospinto i tassisti ricordano di aver acceso mutui da centinaia di migliaia di euro per comprare la licenza, ma sarebbe illegale. Dunque perché nessuno li ha mai fermati? Certo, l’Italia è il Paese in cui persino un ministro disse che con la mafia bisogna convivere, quindi c’è una certa tolleranza per il malaffare, specialmente se organizzato. Però resta strano. La lobby dei tassisti rappresenta un settore basato sull’illegalità e la prepotenza, tanto per dire Benedetta Arese Lucini, il primo volto di Uber in Italia, ha subito un trattamento che definiremmo da mafiosi. Eppure anche in quel caso nessuna reazione istituzionale perché in fondo gli italiani disprezzano le novità: c’è sempre il rischio di veder svanire le rendite di posizione, almeno così pensano perché è un Paese piccolo di gente piccola. Uber aveva creato 80mila aziende, quasi tutte piccole, salvando dalla povertà molte vittime della crisi. Eppure nessuno si è schierato con loro. Toninelli, il ministro della pancia a terra, si è scoperto essere pancia a terra sì, ma di fronte alla lobby dei tassisti.  

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Viva la festa della Repubblica

Viva la festa della Repubblica. Lo diciamo con forza in questi tempi disperati. La disperazione si respira per le strade come negli uffici ed è delle peggiori in assoluto: più del baccano di odiatori da condominio elevato a vox populi, è l’esagitato silenzio delle anime a dipingere un quadro fosco della realtà. Persi tutti i punti di riferimento, siamo una civiltà alla ricerca di una via d’uscita. Le élite spaventate da un mondo troppo grande per le loro capacità si chiudono nei castelli fisici e sociali: meglio governare un popolo debole e impaurito se vuol dire essere certi di sopravvivere alla grande onda. Che sia climatica, sociale o economica, arriva cavallone dopo cavallone. Nel mezzo della tempesta restano gli altri, tutti. Persino gli antivalori sono morti: il mito del denaro che permeava la cultura di fine Novecento è morto come morirono i lumi settecenteschi di fronte al Romanticismo. Sopravvive qui e là come parte di ragionamenti più ampi, tanto ampi da sembrare il vacuo discorrere degli scrittori barocchi. Ma è proprio in mezzo a questo buio che la festa della Repubblica riprende il suo vero valore e diciamo viva la festa della Repubblica: siamo uniti nel nostro destino. Di fronte a un mondo composto da miliardi di individualità distinguibili solo dal possesso della borsa di Prada, ci siamo riversati nei social. Instagram, per citarne uno, ha capito quanto servisse a un’umanità che si sente ignorata qualcuno che almeno virtualmente le desse importanza. E grazie a questa intuizione i suoi proprietari hanno guadagnato miliardi lasciano le persone ancora più sole perché si sono illuse di avere l’attenzione di milioni di loro simili. La festa della Repubblica invece richiama all’unità fisica e morale di un popolo, dove le differenze regionali diventano la forza delle competenze millenarie affinate dalla Storia per unirsi in un unico coro. Il tenore e il soprano intonano insieme e vicini una melodia: Insieme e Vicini. Non secondo il geolocalizzatore, ma secondo i nostri sensi. Vedere le persone, ascoltarle, annusarle, toccarle, avere un assaggio di quanto si possa avere in comune con gli altri senza preoccuparsi prima del proprio orticello. Viva la festa della Repubblica perché ci ricorda che potremmo considerare il nostro vicino come colui che regge lo scudo che ci protegge il fianco, prima di quello che ci ha fregato un posto macchina migliore. La festa della Repubblica ci ricorda che possiamo pensare a qualcosa di più alto, più liberatorio, di un commento, una foto o un video sul sito di una società privata. Una prospettiva non serve solo a trovare la direzione, ma l’equilibrio e la forza interiore che l’Occidente ha perso quando ha ucciso i suoi Dei. La festa della Repubblica testimonia che non tutto è perduto, che l’esagitato silenzio delle anime può essere calmato riportando la luce negli occhi  nei cuori di chi è perso nel buio. Per questo ripetiamo una volta ancora: viva la festa della Repubblica!

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