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Ora il Valentino di Draghi propone la pace con Putin sul Corriere: lo licenzieranno?

Ora il Valentino di Draghi propone la pace con Putin sul Corriere: lo licenzieranno? Se permettete la domanda è lecita perché: 1. siamo ancora tecnicamente una democrazia 2. nei mesi scorsi un tale Orsini è stato preso di mira da tutta la macchina informativa italiana perché proponeva una visione diversa dal “ammazziamoli tutti”. Attenzione: non stiamo dicendo che avesse ragione o torno. E’ un fatto: quello che pare fosse un professore, dunque in teoria non un povero illetterato da bar che le spara grosse, ha pubblicamente iniziato a sostenere che sostenere l’Ucraina con le armi non era una buona idea. Meglio salvare più bambini e meno democrazia (non ce ne voglia Orsini, è solo per amor di sintesi). Ma ogni suo intervento è stato seguito da una violentissima campagna denigratoria che gli ha causato diversi problemi di lavoro. Perché in quel momento essere più a favore della pace che dell’invio di armi era automaticamente una scelta di campo: diventavi putiniano pure se di russi non ne conoscevi manco uno, nemico delle democrazia e via dicendo. Su Orsini è andata così, poi quando rimaneva solo da bruciargli l’auto, rapirgli il cane o fare del male fisico a lui e ai suoi parenti, si sono fermati. Anche perché lui stesso si è ritratto, i programmi che gli davano spazio sono andati in vacanza e così via. Neanche sei mesi dopo Paolo Valentino, che nella sua biografia si definisce  studente di Draghi ai tempi dell’università, si chiede sul Corriere se sia il momento di trattare con Putin. Viene allora da chiedersi se lo stiano per licenziare. Magari pure indagare, perché come scrive fieramente nelle sue biografie la super firma del Corriere è un siciliano dai contatti internazionali. Ha viaggiato molto e tutt’ora se si usa lo stesso metro utilizzato per Orsini si potrebbe supporre che abbia qualche finanziatore estero. Qualcuno se lo è chiesto? Lo diciamo perché spiacerebbe vedere un professore di fatto (è da quarant’anni al Corriere) come Valentino ridotto in miseria o nemico pubblico. In fondo ha vinto una prestigiosa borsa di studio di giornalismo negli Stati Uniti, anche se adesso potrebbero accusarlo che gliela ha fatta vincere la CIA. Magari no, magari si limiteranno a licenziarlo. O a non dargli più spazio. Solo in pochi lo chiameranno filo putiniano, nemico del popolo libero d’occidente. Forse.

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Sala: via Gergiev dalla Scala se non condanna Putin

“Abbiamo alla Scala ‘La dama di picche’ diretta dal maestro Valery Gergiev che ha più volte dichiarato la sua vicinanza a Putin, con il sovrintendente del teatro gli stiamo chiedendo di prendere una posizione precisa contro questa invasione e se non lo facesse saremmo costretti a rinunciare alla collaborazione”. Lo ha detto il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, commentando quanto accade in Ucraina nel corso di un confronto con l’ex candidato sindaco del centrodestra a Milano e consigliere comunale, Luca Bernardo. “Di fronte a queste situazioni bisogna intervenire”, ha detto. Sala, che è anche presidente del Cda del teatro alla Scala, ha poi aggiunto che se il direttore d’orchestra “non prenderà una posizione” La Dama di picche nelle prossime rappresentazioni, in programma fra il 5 e il 13 marzo, “non so se non si terrà ma magari si troverà un altro maestro”. Inoltre sulla questione Ucraina secondo Sala “c’è anche tutto il sistema finanziario e voglio capire cosa farà perché il sistema delle nostre banche da un lato sono molto esposte al sistema russo, il vero punto è capire quanto Putin ha consenso totale o no”, ha concluso. ANSA

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Come lunedì ha battuto diversi record

Come lunedì ha battuto diversi record. Perché le notizie ansiogene che arrivano dal fronte russo sono tutto meno che rassicuranti. E dopo aver intravisto lo spiraglio di una serenità relativa per la tanto annunciata fine del periodo Covid, proprio non ci stava l’ansia della guerra. Poteva starci tanta roba, tanto più che di lunedì si è predisposti a qualche schiaffone visto che apri gli occhi e hai un’intera settimana davanti. Ma una guerra no. Specialmente con la Russia, l’orso di ghiaccio su cui si sono scontrati grandi condottieri della Storia. Se hanno perso loro, con gli attuali generali non c’è da stare sereni. Tra l’altro rasserena pochissimo gli animi l’idea che tutta la questione sia gestita da prostatici settantenni, gente ormai più abituata a vedere i medici di molti parenti. Biden in particolare è già traballante quando cammina, figuriamoci avere il nerbo per sostenere una tensione simile. Infatti continua ad accusare la Russia dopo che l’anno prima la Nato ha organizzato una mega esercitazione in funzione anti russa. Poi ha armato fino ai denti l’Ucraina sempre dicendo che il pericolo erano i russi. E ora continua a lanciare allarmi su allarmi. A noi non stupisce nemmeno che Putin abbia riconosciuto le repubbliche filo russe. D’altronde l’Occidente ha occupato militarmente l’Afghanistan per vent’anni perché l’ha accusato di essere uno Stato terroristico. Però poi attacca la Russia visto che si annette pezzi di Russia. Ora siamo sul filo del rasoio perché questo arzillo vecchietto americano ha una certa età e quasi lo stesso numero di pillole da prendere al giorno. Se poco poco gli sfugge la giornata di mano rischiamo di vederlo infartare nel mezzo della crisi che lui stesso ha creato. E sui servizi americani stendiamo un velo pietoso vista la quantità immane di cantonate degli ultimi 20 anni: le armi di distruzione di massa in Iraq non sono mai state trovate, tanto per dirne una. O vogliamo citare quando la Cina ha smantellato l’intera rete della Cia sul proprio territorio? E potremmo andare avanti. Ma per ora ci basta la coscienza che Come lunedì ha battuto diversi record: potevamo avere qualche sfiga come di consueto, ma i venti della guerra proprio non ce lo aspettavamo.

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La nebbia lontana dopo le elezioni russe

L’Assassino ha incontrato il suo Accusatore e l’ha convinto a firmare un piano congiunto contro i soliti hacker. Soprattutto ha ottenuto il consenso americano al Nord Stream II, capitanato da un vecchio collega di spionaggio del neozar russo. Poi la Merkel all’abbandono del suo ruolo storico di leader europa e tedesca, ha salutato il partner russo, con il lascito, direttamente sul suolo teutonico, di un gasdotto potenziato, che raddoppierà le vendite energetiche russe nell’Europa più ricca. L’UE nel ’90 importava da Mosca il 55% dell’energia necessaria; era scesa al 27% nel 2010, risalita al 30% proprio dopo le sanzioni ed oggi tornata ai valori quasi massimi del 41%. Dopo l’abbandono del nucleare tedesco, si impennerà ulteriormente. I prossimi passi del Macron francese, destinato ad una veloce scomparsa dalla politica transalpina, lo condurranno in braccio a Mosca, ora che l’ira parigina per gli accordi militari tutti anglosassoni del Pacifico è al massimo. Le elezioni per la Duma non potevano tenersi in un momento migliore per Putin, dopo il dribbling del voto recente americano e delle decisioni fondamentali tedesche, prese ancora prima del loro voto. E soprattutto a poche settimane dal disastro afghano Usa, terribile per sostanza ed ancora più per forma.  Così lo zar, dopo essersi garantito il Cremlino teoricamente fino al 2036, ha presentato il suo partito, o meglio di Medvedev, al voto popolare. Per un annetto, l’Europa ha evocato il de profundis per Edinnaia Rossia e Limes di Caracciolo si è spinta a vaticinare un futuro a pezzi per il gigante orientale. Quasi un decennio di sanzioni diplomatiche ed economiche contro il paese, ma anche contro 155 persone (grandi politici, militari, consiglieri municipali, giornalisti, burocrati, imprenditori, qualche starletta portavoce e pure lo scomparso Kobzon, il Sinatra russo), l’esclusione dal G8, contestate elezioni bielorusse con strascico di repressioni anche aeree e la colpa storica (assieme ai soliti tedeschi) dell’ultimo conflitto mondiale hanno costituito la base per l’indignazione massima per le persecuzioni subite dall’oppositore Navalny, erede del caso Khodorkovsky, (contestato tentativo di omicidio, cura tedesca, nuova condanna e nuovo imprigionamento in Russia, ulteriori  proteste  e repressioni). Una sorta di drole de guerre froide senza sbocco. Il tempo della condanna morale è stato però scelto male, troppo in anticipo. Passate le forche caudine americane e tedesche, tra le inutili proteste polaccobaltiche, mentre cresceva il pericolo cinese, le elezioni russe del 17-19 settembre con l’ineguagliabile cinismo russo, hanno visto Navalny in galera, il suo partito, Russia del futuro, considerato terrorista ed i social occidentali obbedienti nel bloccare siti, chatbot, messaggi dell’Umnoe golosovanie, lo Smart voting, che avrebbe dovuto coalizzare tutti i nemici del partito putiniano di maggioranza alla Duma. Il voto elettronico, attivato a Mosca per due milioni di elettori ed in varie altre regioni, doveva facilitare questa strategia ma invece ha finito per risultare d’aiuto al Cremlino. Pur nel calo della partecipazione di un elettorato, al 51%, che guarda alla politica con scetticismo, nell’ineluttabile e rassicurante stabilità, Edinnaia Rossia è passata dal 54,2% del 2016 al 49,79%, mantenendo la maggioranza parlamentare con un risultato simile al 2015. Fra i 450 deputati, può contare su 320 seggi (con una perdita di venti unità), cui si aggiungono i 23 liberaldemocratici del populista Girinovsky, sceso al 7,48%, i 18 di Russia giusta (7,41%) di Mironov, la coalizione cresciuta attorno a Rodina (madre patria) ed i 15 di Gente nuova (5,36%), formazione ecologista civetta del profumiere Naciaev, rivolta ai giovani. Gli sforzi liberali hanno aiutato i 60 deputati comunisti di Ziuganov, cresciuto al 18% (ma non del 25% come si era ipotizzato immediatamente dopo il voto). Un seggio cadauno tocca allo storico partito liberale Iabloko (Mela) all’1,3%, a Piattaforma Civica ed al partito della Crescita di Titov e Schnurov. Anche la proibita formazione navalnyana della Russia del futuro avrà il suo strapuntino, un eletto nelle liste uninominali. Gli strali americani, europei, delle Ong e dell’opposizione comunista si sono ora concentrati sulla decina di migliaia di denunce di broglio, di pressioni e violenze e sul lento meccanismo di comunicazione centralizzata del voto che, con la scusa del voto elettronico, ha smentito i trend del primo giorno di voto. Tutti i lai per il Donetsk in guerra muoiono davanti alle partite di Champions dello Shakhtar (Shakhtyor, minatore) Donetsk il cui portiere Piatov ha fermato l’Inter, anche se l’Uefa ha sostituito la sponsorship del colosso Gazprom con più ordinario Justeat. Fondata in epoca stalinista, con il nome Stachanovec, in onore del minatore ucraino Stachanov, la squadra del Donbass dal 2002 ha vinto numerosi campionati, coppe europee ed è campione in carica, giocando da anni lontano dalla sua regione e dal bel stadio, nuovo e tirato a lucido, della Donbass Arena. Ha dovuto spostare i campi di allenamento prima all’altro capo del paese, a Leopoli a 1000 km, poi a 300 km nello stadio del Metalist di Kharkiv (tra l’altro fallito) ed ora a Kiev. I brasiliani, di cui è farcita la squadra non risentono troppo dei cambi di geolocalizzazione, come neanche gli allenatori italiani che la guidano, ora De Zerbi, Nevio Scala al tempo del primo titolo nazionale. Il finanziatore, il miliardario Achmetov, dal nome tipicamente tartaro, rilanciò lo Shakhtar dall’amico Bragin, criminale poi saltato in aria. Paradossalmente l’imprenditore zar del Donbass, la cui azienda Sistema agglomerato di business è gemella della Sistema russa, è paradossalmente l’ex sostenitore del governo filorusso e padrone dell’esercito ribelle ed insieme l’unionista vicino a Kiev che vince i campionati. Il presidente ucraino Zelenskyi ondivagamente tiene alla sua amicizia per poi definirlo manipolatore, in Tv. L’ingigantita figura dello Smart Navalny e delle rivolte di piazza non hanno quindi lasciato traccia sulla Demotura russa, anche se i commentatori più evoluti si affrettano a ricordare che il sistema invecchia con l’età del suo presidente (che nel 2036 sarà 84enne). Certo a strascico di queste elezioni ci saranno ulteriori sanzioni contro personaggi politici e non, del Donbass e della Crimea. Nessuno toccherà però il mufti Kadyrov, padrone della Cecenia, che per il partito di Putin ha preso il 98,5% dei voti. Magari verrà sanzionato anche Urgant, la

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Meeting con l’assassino

Meeting con l’assassino. Ora, Biden non sa come prepararsi per l’incontro con l’Assassino. Forse con una nutrita schiera di guardie del corpo, dietro lo scudo delle quali colloquiare o ancora forse con un giubbotto antiproiettile molto tecnologico. L’anziano esponente democratico teme anche bevande, cibi e cerbottane tanto più che i russi hanno minacciato un summit lunghissimo, di 6 ore, per prendere probabilmente Biden per fame. L’uomo più forte del pianeta, con al seguito trenta eserciti nell’armata che è stata definita la più potente della storia, ha i suoi timori. Gli alleati non hanno attenuato i timori, in particolare i tedeschi, i più deliziati della definizione presidenziale di Putin killer. Il comune dolo tedescoamericano per i diritti umani e per la persecuzione dell’oppositore russo Navalny ha evitato, per contrappasso, sanzioni sul Nord Stream 2, la Nord Stream AG che lo costruisce e sul suo ceo Warnig, già agente Stasi e collega di Putin, quand’era spia a Dresda per il Kgb. All’incontro tra i due presidenti del 16 giugno non ci saranno così fughe di gas. Il gasdotto, anzi, il suo raddoppio, che unisce Russia e Germania, nella tradizione di Rapallo, caccia il resto dell’Occidente dall’Europa centrale e costituisce oggettivo ostacolo all’avvicinamento ucraino. Paradossalmente lo fa in nome del principio cardine occidentale, quello ecologico. L’eliminazione del carbone tedesco entro il 2030 è possibile solo grazie ai Nord Stream. L’UE nel ’90 importava da Mosca il 55% dell’energia necessaria; nel 2010 il 27%, dopo le sanzioni del ’14 il 30% ed oggi il 41%. Il vincolo ecologico vale più di tutte le sanzioni e lotte diplomatiche. Putin in Svizzera si siederà con il punto principale già incamerato, e non per sua richiesta. Est ed Ovest si incontrano prima e dopo le elezioni. In Russia a settembre si vota per la Duma. A luglio ’20 si è svolto il referendum sulle modifiche costituzionali che permette a Putin altri due mandati seieannali (nel 2024 e nel 2030). Sulla carta potere fino a 86 anni, per 36 anni, superando i 29 anni di Stalin, ma non i 43 di Pietro il Grande. Ogni volta che si vota in Russia, i sondaggi occidentali sembrano quelli di Rai3 o la 7 per il Pd. Prima rilevano il calo del partito di maggioranza, Edinnaya Rossia; poi mancata la previsione, passano ai brogli, imbrogli, regali e imposizioni. Si resta, arcigni e sospettosi, sul 76,69% per la terza elezione di Putin nel ’18; sul 48,77% nelle elezioni locali del ’20, dove Russia Unita ha perso solo a Tomsk, a Novosibirsk e Tambov, a favore di candidati vicini a Navanlyj, ma anche dall’opposto di Rodina (Madrepatria). La riforma, approvata dal parlamento e dalla Corte Costituzionale, poi votata a luglio ’20, è passata con il 77,9% sul 64% degli elettori. Sembra quasi suggerita da Conte, infatti elimina il vincolo dei due mandati. L’avvelenamento di Navalny da Novichok, in volo di ritorno in Russia, dopo le cure tedesche, il suo ennesimo incarceramento in Russia, le rivolte siberiane e dell’estremo oriente hanno fatto esplodere la pubblicistica occidentale, scioccata poi dalla messa fuorilegge del partito anticorruzione. Anche nel 2011 si erano diffuse proteste in tutta la Russia, veicolate dall’uso social di VKontakte su Internet. Il vaso di Mosca, preso dal lato delle rivolte di piazza, ha un fondo infinito, come ci ha ricordato Graziosi nell’unica vera storia dell’Urss in circolazione, nella quale ha elencato le tantissime sollevazioni avutesi durante il potere comunista che mai ne venne intaccato. Alla fine però le crepe sulla demotura russa si limitano al consenso sceso al 60%, in un paese dove il Covid ha lasciato 650.000 morti (tanti ma meno di Usa e Brasile) nell’ambito di un sistema sanitario deficitario malgrado la diffusione del proprio vaccino fin dall’agosto ’20 (che Putin ha fatto somministrare anche alla figlia); un paese dove il Pil previsto è più 4% a 4,5 punti di inflazione. Inutile sperare sulla fine del consenso. Al summit il presidente russo va con un forte mandato elettorale, magari con la pecca di sostenere quello bielorusso rieletto con elezioni assai più discutibili. Sarà più che ottantenne se vincerà tutti i mandati possibili. Biden è già ora quasi ottantenne, al primo mandato dopo mezzo secolo da congressman. E’ l’America che è divisissima su idee, visioni, politiche, non la Russia. Così il problema elettorale si sposta da Mosca a Washington, dove si temono le ombre del Russiagate in ogni dove. Perché in 81 milioni hanno votato per Biden ma 74 per Trump (34% astenuti) ed i due elettorati non sono mescolabili soprattutto se la realpolitik conduce Biden a proseguire le politiche trumpiane. L’incubo dell’hacker russo è perfettamente legale. E’Kasperskj il cui antivirus ha conquistato il mercato Usa. E’ Snowden le cui rivelazioni e fuga nel 2013 vengono protette in Russia. E’ il Codice Durov descritto dal giornalista Kononov. I fratelli Durov, Pavel e Nikolai, l’uno vissuto a Torino, l’altro a Bonn, inventano nel 2006 da palazzo Singer sulla prospettiva Nevski, VKontakte, piattaforma universitaria che si fa grande social network, più semplice, più veloce, condensato di YouTube, Facebook e Spotify.Malgrado l’amicizia con Surkov, ideologo di Russia Unita, nel 2012 l’United capital, fondo vicino al Cremlino, compra la maggioranza di VK; Pavel vende il suo 12% e nel 2014 non è più Ad. Lascia un social da 500 milioni di iscritti con il logo del cane che pernacchia il potere. L’anno prima però Pavel, stesso anno di nascita di lancia Telegram, l’app di messaggistica istantanea all’insegna della privacy più stretta. Ragion per cui la nuova società si sposta con il proprietario, Isole americane Saint Kitts e Nevis, Finlandia, Indonesia, ora Dubai. Gli avvocati rispondono da Berlino. Se VK era russo, ancora oggi frequentato da occidentali putiniani, Telegram è globale, vicino a 500 milioni di utenti; minacciato parimenti in Cina, in Iran, in Europa ed a Mosca. In Russia non c’era un Icann ed il Roskomnadzor, l’organo sulle comunicazioni, si è evoluto inseguendo Vk e Telegram. Alla sbarra alla Duma, Pavel nel ’18 non cede sull’identità dei clienti; al contrario di Zuckerberg che al Congresso

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Putin dietro la liberazione dei pescatori italiani in Libia

Putin dietro la liberazione dei pescatori italiani in Libia. “Non si può dire ma è stato il signor Putin con le sue telefonate ad Haftar a farli liberare questa è la verità su quello che è successo. Non bisogna dirlo però. Comunque viva siamo risuciti, sono tornati evviva”. Secondo quanto riporta l’agenzia Ansa, lo ha detto al telefono parlando con l’armatore del peschereccio Medinea, Marco Marrone, il leader di Fi Silvio Berlusconi. La versione è plausibile perché si sa che il dittatore della Libia orientale può contare sulla Russia come alleato internazionale, un protettore ormai di primo piano dopo il ritiro di fatto degli Stati Uniti dalla zona. Putin ne ha approfittato, distruggendo territorialmente lo Stato Islamico e imponendosi come arbitro di molte contese. Una di queste è quella libica, dove ha deciso di difendere Haftar, l’uomo che si è intestato la vittoria contro l’Isis in Libia quando in realtà erano state le milizie twar a scacciare per prime gli islamisti. L’alleanza però funziona, come dimostra la notizia che c’è Putin dietro la liberazione dei pescatori italiani in Libia. I buoni rapporti tra Italia e Russia dunque sembrano continuare, anche se non è chiaro se l’Italia si sia impegnata in qualche altro modo, perché il nuovo Zar non sembra tipo incline a regalare nulla a nessuno. Anzi. Per ora agli italiani resta l’unica certezza: si possono ringraziare i Servizi segreti come ha detto Raffaele Volpi, vicepresidente del Cospasir, oppure direttamente i russi, ma sicuramente non il governo Conte-Di Maio che ha provato a risolvere la questione per dare una prova di forza. Prova fallimentare, perché il merito va alla Russia e ai suoi rapporti internazionali. Un altro tema su cui pare che i governi a trazione M5S siano stati molto carenti, troppo per una potenza di media grandezza come l’Italia.

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