stefano parisi

Parisi lascia la politica, eccellente idea

Parisi lascia la politica, eccellente idea. Rubiamo il titolo all’Indipendente perché ci pare davvero adeguato commentare così l’addio di Stefano Parisi alla politica. Il suo nome resterà legato a una delle sconfitte più tristi della storia del centrodestra meneghino. Al primo turno era arrivato testa a testa con Sala, ma negli ultimi giorni non aveva saputo trovare i giusti equilibri perdendo l’occasione. Da quel momento ha tentato un paio di rilanci come leader nazionale, ma nessuno pare averci mai creduto veramente. Megawatt e la sua galassia erano senza energia. A Milano Parisi si è sempre visto poco in questi anni: qualche evento ogni tanto, una percentuale di presenza in Consiglio comunale del 29%. Insomma, era preso da altro. E si percepiva, tanto che quando si è dimesso nel Lazio, in tanti del centrodestra temevano che stesse per proporsi per un bis contro Sala. Ma con una chance, tipo l’Impero colpisce ancora. Invece no. Era l’inizio dell’addio. “Torno al lavoro” ha esordito Stefano Parisi raccontando la fine del suo percorso. Gli auguriamo maggior fortuna in quel campo, perché con in quello politico non ne ha avuta. Ecco il suo annuncio: Torno al mio lavoro. Il mio impegno nella politica attiva si conclude qui. È iniziato nel febbraio del 2016 quando la coalizione di Centro Destra mi ha candidato alle elezioni per il Sindaco di Milano. È stata un’esperienza fantastica: l’elaborazione del programma di governo per il futuro della città. La raccolta di un ampio consenso per costruire insieme quel futuro. Le migliori energie della città si mobilitarono su una visione moderna di Milano, europea, riformista, liberale, popolare. Persi per pochi voti ma quell’esperienza generò una grande voglia di politica nuova. Ci mettemmo a studiare, a raccogliere le migliori idee per il Paese. Un bellissimo momento di confronto fu MegaWatt a settembre del 2016. Sul palco di quel capannone industriale di Milano si sprigionò una forza ideale e programmatica straordinaria. Per due giorni migliaia di persone ascoltarono i tanti contributi che venivano da esperienze e radici culturali differenti, ma si ritrovarono lì con una forza e una motivazione che non si vedeva da anni. Da lì iniziò un grande lavoro di elaborazione di un programma di Governo per il futuro del Paese, si posero le basi organizzative e programmatiche per costruire una nuova destra liberale e popolare. Sì, in tanti vedevamo il rischio della perdita del senso di una comunità, della nostra nazione. In tanti iniziammo a lavorare per ricostruire dalle fondamenta un pensiero politico nuovo. Convinti che la cultura popolare e liberale si era persa e chi diceva di rappresentarla non aveva più la capacità di comprendere cosa accadeva nel proprio elettorato. Quella politica si reggeva solo sull’autoreferenziale gestione del potere, ma aveva completamente deluso e inaridito la spinta che tanto spazio le aveva dato alla fine degli anni Novanta del secolo scorso. Era necessario rifondare il pensiero politico. Le categorie di cui la politica si era nutrita negli ultimi 20 anni erano perdute, lasciandola senza nessuna capacità di rinnovarsi. Certamente a causa dei meccanismi elettorali che auto-alimentavano l’esistente, ma anche e soprattutto a causa di un gruppo dirigente senza ricambio, senza alternative, senza speranza. I valori del pensiero politico liberale-popolare erano scomparsi nella vita breve dei sondaggi, degli slogan, e dei vuoti dibattiti televisivi. Le fondamenta di quel pensiero erano perdute dietro al tatticismo e alla voglia di sopravvivenza di un ceto politico senza futuro. Quelle ricette divenute slogan non funzionavano più. Si era da anni in una nuova era, dove le enormi spinte migratorie, la minaccia del terrorismo islamico, il venir meno degli Stati Uniti quale Paese guida per il mondo occidentale, lo straordinario peso della Cina nell’economia mondiale e negli equilibri geopolitici globali, i nuovi equilibri che si andavano generando nel Mediterraneo, la debolezza dell’Europa divisa e irrisolta, la debolezza strutturale della nostra economia, richiedevano un grande lavoro di ricostruzione delle basi di un nuovo pensiero politico. Le drammatiche tensioni che innervano le nostre società non trovano riposta in una politica che le alimenta, ma in una élite che guida un popolo per ritrovare il senso della persona, l’identità di una nazione, il significato della vita nella comunità. Tanti di noi vedevano con nettezza le prime minacce di una radicalizzazione delle leadership della destra, che andava a riempire un vuoto di rappresentanza e che, tra il 2016 e il 2019, avrebbe generato un vero smottamento politico e la quasi scomparsa del voto liberale e popolare. Quella protervia nel rifiutare qualunque rinnovamento. Quell’ossequioso e ridicolo ripetere che il rinnovamento non era necessario, che chiunque ci avesse provato avrebbe fallito (come effettivamente è stato), che il passato terrà anche per il futuro, nonostante il disgregarsi quotidiano di una rappresentanza politica e di un gruppo dirigente ormai obsoleto. Non era nostra intenzione, ovviamente, costruire un ennesimo piccolo partitino. No, volevamo ricostruire un nuovo modello di rappresentanza politica, far emergere nuovi leader, non far aumentare i follower. Ripartire dai nostri valori per cercare di reinterpretare il futuro, non è un’operazione di breve periodo. Richiedeva la mobilitazione delle élite culturali, per riproporre un nuovo patto morale per la convivenza delle nostre comunità basato sul valore profondo della democrazia e della responsabilità. Ripensare a un modello di Stato sobrio, che lasciasse alle comunità il compito di occuparsi degli altri, una sussidiarietà vera, libera, in grado di mobilitare lo spirito caritatevole e amorevole che c’è tra di noi. Un sistema giudiziario liberale, giusto, in grado di riportare la fiducia dei cittadini nella giustizia. Un sistema fiscale in grado di rimettere in moto l’adrenalina che deve esserci nei giovani per costruire il loro futuro. Un nuovo sistema educativo che si liberi dell’attuale modello ormai fallito (che sta per compiere un secolo) e che sia in grado di stare vicino ai nostri ragazzi, di scoprire il talento che c’è in ciascuno di loro, in grado di valorizzarlo, che non generi più gli abbandoni, che dia a tutti una vera opportunità. È arrivato poi il drammatico 2020. Una crisi umanitaria globale senza precedenti. Le debolezze dello Stato

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Caro Sala la sinistra parla di donne, mentre a destra le donne guidano

Caro Sala la sinistra parla di donne, mentre a destra le donne guidano. Lo scriviamo perché il primo cittadino di Milano ha detto che l’anno prossimo “si andrà a elezioni. Ma è possibile che non ci sia una forza popolare o un movimento tale per cui, anche se non è obbligatorio, garantirà che in Consiglio entreranno in pari misure uomini e donne?”. E ha poi aggiunto: “Nel 2016, alle scorse elezioni, io l’avevo fatto e Parisi no, perchè questo dev’essere un patrimonio solo del pensiero di sinistra? E’ qualcosa a cui il centrodestra non deve rispondere? Devono farlo anche loro”. Ora, tralasciamo pure l’ineleganza di attaccare l’ex contendente quando durante la campagna non ha risposto a una (dicasi una) questione sollevata da Parisi. Anzi lo ha ignorato, per poi prendersela con lui ora. E lasciamo stare pure l’arroganza di dire “Devono farlo anche loro”, perché la destra non è il Pd e non si fa usare a fini elettorali mentre viene bacchettata da chi porta in spalla. Ma si può avere la faccia di parlare della destra in questi termini? Giorgia Meloni, se ti fosse sfuggito caro Beppe, è donna. Piccolina pure. Ed è l’unica leader politica nazionale, i vostri sono tutti uomini. Quindi caro Sala la sinistra parla di donne, mentre a destra le donne guidano. Tra l’altro proprio Beppe ha battuto una donna alle primarie, invece di compiere un passo indietro. Forse perché un conto è parlare di donne, un conto cedergli il potere? A destra le donne non si usano per sentirsi a posto con la coscienza. Per capirci basterebbe che Beppe si riguardasse Cena tra amici, dove appare chiaro come i veri conservatori irrispettosi delle donne siano i così detti progressisti. Però c’è un motivo per cui nei corridoi gli hanno affibiato il soprannome di “onesto”. Con le virgolette. E non solo perché il tribunale ha stabilito che è truccatore di carte. E sono pure gentili, perché chi attacca a fine mandato un ormai ex contendente, o usa le donne per farsi campagna elettorale, forse meriterebbe commenti peggiori.

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