La storia della ligera. Seconda Parte

ligera Luciano LutringAvevamo lasciato (prima parte) Lutring che emozionato come un adolescente si allontanava rapidamente dal luogo dove aveva messo a segno la sua prima impresa criminale. Sapendosi oramai braccato si diede alla latitanza. Fu in quel periodo che si procurò il mitra che teneva nascosto in una custodia di violino recuperata chissà dove, abitudine che gli valse il soprannome de “il solista del mitra” cosa che sicuramente non soddisfò le ambizioni musicali che avevano per lui i suoi genitori. Questo armamentario stonava un po’ con le tradizioni della Ligera, il cui nome secondo alcuni deriva proprio dal definire “leggera” quella criminalità milanese i cui componenti difficilmente si avvalevano dell’uso delle armi. Nonostante questo non tradì mai i principi di non violenza cui lo avevano educato i più anziani, il suo mitra non sparò mai un colpo che non fosse diretto verso il cielo… o verso il soffitto di qualche banca.

Fra i personaggi che popolavano le serate dei fumosi bar dell’Ortica, di Lambrate, del Ticinese, del Giambellino… c’erano più “baùscia” che banditi di professione e anche la maggior parte di questi se fossero stati giovani in un periodo diverso dal dopoguerra difficilmente si sarebbero messi a delinquere. Non stupisce che molti di quelli di loro che sono riusciti a superare indenni prima quel periodo e poi il carcere siano diventati cantanti, pittori o poeti, avevano storie da raccontare, la sensibilità per farlo e il ricordo di vecchi amici che non ce l’avevano fatta a ispirarli.

Bruno Brancher, non era destinato a diventare famoso per la sua carriera criminale, forse, se si fosse limitato a quella su di lui sarebbero scritte solo barzellette e canzonette da varietà. Era nato al Ticinese, figlio di una ragazza madre, era cresciuto in una città popolata di disperati a cavalo fra la guerra e la ricostruzione e per sbarcare il lunario aveva iniziato con il fare il ladro di biciclette. Non era mai riuscito a fare il salto di qualità perché il Bruno aveva un difetto:: tartagliava! I suoi amici rapinatori  non l’avevano voluto più con loro dopo che in un paio di rapine non era riuscito a dire nulla più di “Ma… ma … mani in… in…a…al….” prima che si sentissero le sirene della “madama” che consigliavano a  lui e i suoi complici a darsi alla fuga. Lui però non si perse d’animo, si mise in proprio e dopo aver trascorso le serate a raccontare di quella volta che – a suo dire – “si era fatto la bicicletta di Fausto Coppi” passava le notti a infrangere vetrine di gioiellerie per arraffare qualche gioiello senza il problema di dovere dire qualche cosa in tutta fretta. A un certo punto le sue “spaccate” lo avevano reso anche abbastanza noto, ma non era destino, non sarebbe mai diventato una grande criminale perché aveva anche un altro difetto: quando si allontanava troppo dai confini della sua amata Porta Cicca si perdeva! Fu così che una notte, non trovando più la strada di casa fu catturato dalla polizia che lo colse mentre si aggirava sperduto in un quartiere non suo poco dopo avere fatto la sua ultima spaccata.

Per un proletario come lui il carcere fu duro, al contrario di quello che capitava ai grandi criminali, amici e famiglia potevano mandargli solo pochi quattrini e non aveva certo gli appoggi politici che cominciarono a riempire le carceri a metà degli anni sessanta, così si trovò isolato. A cambiargli la vita fu un pestaggio subito da un gruppo di extraparlamentari che lo fece finire sui giornali. Chissà come la gente rimase impressionata da quel carcerato così indifeso e cominciò a scrivergli chiedendogli della sua storia e lui rispondendo si accorse che gli piaceva farlo e scattò la scintilla che ne fece uno scrittore. Non più prigioniero del doversi esprimere attraverso i suoni scoprì la bellezza delle parole da cui partorì il suo primo capolavoro: “Disamori”. Un libro con il Naviglio al centro, fatto racconti ispirati a eventi e personaggi della sua gioventù, da cui trasuda tutto il suo amore per Porta Cicca. Distribuito dal libraio e storico del Ticinese Primo Moroni, lo fece assurgere alla notorietà come il poeta-protettore dei miserabili di quella zona. Uscito dal carcere, imparò ad ammaestrare la sua voce mettendosi  raccontare le sue storie come facevano i menestrelli di strada un tempo procurandosi il pubblico nell’unico modo che conosceva… lo rubava ad altri.

Negli anni “70” era quasi impossibile assistere a una conferenza o una presentazione all’università senza che lui sbucasse dal fondo della sala alzando la mano, e senza che nessuno glie ne desse il permesso salisse sul palco e cominciasse a raccontare le sue ballate. Ben presto fu così noto che i pochi che chiedevano “Ma chi è quello?” si sentivano rispondere “Ma come, non lo conosci? È il poeta uscito di Galera!“. E poi venne il successo quello vero, altri libri, le serate piene di gente che lo ascoltava parlare di carcere e di ligera. Divenne anche un rubacuori inanellando una storia dietro l’altra con le giovani studentesse che puntualmente si innamoravano di lui, ma non cambiò mai stile di vita continuando a frequentare le vecchie osterie e i pub di posta Genova. Arrivarono i premi letterari, le liti Oreste del Buono e Ada Merini e infine di nuovo il carcere per avere accoltellato – non gravemente – una sua giovane fidanzata e poi tentato di uccidersi. Nel 1985 fu ammesso al lavoro esterno al carcere, il Comune gli diede un occupazione e una casa popolare al Corvetto,  poi grazie all’aiuto di un editore che non ha mai voluto fosse fatto il suo nome riprese a scrivere. Bruno trascorse quegli anni percorrendo le via della città che oramai conosceva come le sue tasche e frequentando i giovani (e le giovani) cui era solito dire “Se vuoi scrivere fallo subito. Quando hai la mia età, una giornata di sole, una donna o una birra ti spingono ad andare fuori, non a faticare al tavolino” per poi metterli in guardia dallo sprecare la loro vita seguendo le sue orme.

A coronare la sua esistenza straordinaria ci fu l’Ambrogino d’Oro concessogli dal Comune a riprova che fino a qualche decennio fa, la Milano con il cuore in mano, sapeva ancora dare una seconda e perché no una terza possibilità a tutti. Poi la lenta decadenza fisica, la malattia, la casa di riposo e infine la morte lo haportato via per sempre dalla città che tanto amava.

Lutring, invece non era certo il tipo da balbettare per l’emozione o la paura. La sua voce era decisa e i cassieri delle banche italiane e francesi impararono in fretta a riconoscerla. Fra la metà degli anni “50” e quella dei “60” compì circa cinquecento rapine, senza mai fare male a nessuno ne correre il rischio di essere catturato. Accumulò un bottino di circa trenta miliardi di lire del tempo riuscendo a spenderli tutti in fuoriserie, alberghi di lusso, donne e bella vita in generale.

Nonostante fosse definito il “pericolo pubblico numero uno” sia in Italia che in Francia continuò a condurre una vita “normale”, muovendosi per la penisola e concedendosi dei periodi di ferie dal “lavoro” come se fosse un impiegato qualunque. Certo, visto che c’era se gli capitava non si lasciava sfuggire l’occasione di fare un buon colpo, così in quegli anni si moltiplicarono le sparizioni delle valige dei turisti più danarosi. Fu proprio grazie ad uno di questi furti che conobbe il grande amore della sua vita. Durante una breve vacanza a Cesenatico, adocchiò delle valige che gli sembravano interessanti e le fece sparire. Rimasto sul posto non poté fare a meno di notare la bellezza della proprietaria che le cercava disperatamente. Si trattava di Elina Candida Pasini, una giovane modella valtellinese che usava il nome di Yvonne Candy. Innamoratosi a prima vista attese che lei rientrasse in camera e poi le si presentò alla porta per restituirle le valige dicendo di averle solo ritrovate. Fortuna volle che lei lo corrispondesse, fra loro sbocciò una travolgente storia d’amore e dopo avere trascorso insieme quei primi giorni al mare, si trasferirono a Milano dove vissero negli agi.

Chi ha avuto la fortuna di visitare il loro appartamento in via Zuretti (e chi scrive l’ha avuta) è rimasto stupito dallo sfarzo con cui fu realizzato, dagli arredi, dalle opere d’arte, dagli specchi che ricoprono il soffitto della camera da letto.  Quasi impensabile anche al giorno d’oggi. Lui non le faceva mancare niente, e se non poteva comperarglielo lo prendeva e basta. In molti si ricordano ancora di quella notte di Natale dei primi anni sessanta in cui per soddisfare un desiderio di Yvonne, si gettò in macchina nella vetrina di una nota pellicceria di corso Vittorio Emanuele II. La sera della vigila mentre passeggiavano per il centro lei gliela aveva indicata ma i negozi erano già chiusi, così una volta rientrati attese che si fosse addormentata e poi uscì a prendergliela a modo suo. Difficile immaginare la festa che fecero la mattina di Natale. Si sposarono dopo qualche anno e rimasero insieme per tutta la seconda parte della carriera criminale di Lutring. Il loro fu un grande amore che si interruppe loro malgrado quando lui venne arrestato.

La storia è ancora lunga però, continueremo il racconto settimana prossima.

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