Nome dell'autore: Michelangelo Bonessa

Giornalista per inclinazione allo scrivere e al non essere allineato, direttore editoriale dell'Osservatore Meneghino per le mille e imperscrutabili vie della vita. Ho scritto per Narcomafie, Corriere, Giornale, Fattoquotidiano, LaPrealpina, Stile, 2duerighe.com, MilanoPost, l'Esagono e molti altri.

Una partita giocata fuori campo

Una partita giocata fuori campo. Nella Milano che si proietta verso il futuro con la stessa velocità con cui corre sui binari della sua nuova Metropolitana 4, si apre un nuovo atto che ha tutto il sapore di una commedia all’italiana, ma con risvolti che paiono tratti da un dramma shakespeariano. Al centro della scena, lo storico Stadio di San Siro, o Giuseppe Meazza per i puristi, e un’idea che solleva più di un sopracciglio: venderlo alle squadre del Milan e dell’Inter, con l’accordo che ne sostengano i costi di ristrutturazione. Il Sindaco Giuseppe Sala, regista di questa manovra, sembra aver calato il sipario su ogni remora, proponendo un affare che a molti suonerebbe come una resa piuttosto che come una trattativa. In cambio, le gloriosi squadre meneghine dovrebbero rinnovare l’arena a proprie spese, promessa che risuona come un eco nelle vuote stanze delle casse comunali. Ma la trama si infittisce quando entra in scena Webuild, lo stesso colosso che ha costruito a linea M4 della metropolitana. L’offerta di progettare il nuovo stadio sembra una mossa logica, un passo naturale per una società che ha già dimostrato di poter trasformare la visione in realtà. Tuttavia, non si può fare a meno di chiedersi: siamo davvero di fronte a un’opera di puro mecenatismo aziendale, o c’è sotto qualcosa di più? La questione si complica se si considera che lo stadio, oltre a essere un luogo dove si giocano partite di calcio, è anche un pezzo di storia milanese, un punto di riferimento affettivo per molti cittadini e un bene pubblico di inestimabile valore sociale. La sua cessione sembra quasi un regalo, un lascito generoso a due entità private che, per quanto legate indissolubilmente alla città, operano secondo logiche di profitto. Non ci vuole un critico d’arte per notare le ombre in questo quadro. Si potrebbe quasi parlare di una sorta di “baratto culturale”, in cui la memoria e l’identità di una città vengono scambiate con la promessa di un rinnovamento architettonico e funzionale. Ma a quale prezzo? E per chi? Queste domande non sono retoriche, ma piuttosto il tentativo di penetrare la nebbia di un affare che sembra troppo bello per essere vero. In una città che ha sempre saputo rinnovarsi, preservando gelosamente il proprio patrimonio storico e culturale, la vicenda dello stadio di San Siro sembra un’anomalia, un pezzo del puzzle che non trova la sua collocazione. Milano merita trasparenza, così come i suoi cittadini, che guardano a San Siro non solo come a un tempio del calcio, ma anche come a un simbolo della loro città. È quindi legittimo chiedersi se, in questo intreccio di affari e interessi, non si stia perdendo di vista l’essenza stessa di ciò che rende un bene pubblico tale: la sua appartenenza alla comunità e il suo valore inestimabile che trascende il mero calcolo economico. In conclusione, la partita per il futuro di San Siro è ancora tutta da giocare, e come in ogni buon incontro che si rispetti, sarà il campo – in questo caso, quello dell’etica e della trasparenza – a decidere il vincitore. Resta da vedere se i tifosi di questa città saranno semplici

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Via Padova: ha ragione Sardone o i commercianti?

Via Padova: ha ragione Sardone o i commercianti? In questi giorni è tornata alla ribalta la questione via Padova. Da sempre è una delle vie di Milano di cui si denuncia il degrado e l’ultimo intervento della Lega ha riaperto il tema: Silvia Sardone, notissimo volto leghista su Milano, ha organizzato la presentazione di un libro e il suo partito una fiaccolata per chiedere più sicurezza per via Padova. Durante la serata un altro corteo ha cercato di marciare verso i leghisti con lo scopo di bloccare la presentazione del libro e contestare la manifestazione. Perché secondo alcuni continuare a parlare di via Padova come di un luogo di degrado e insicurezza è ingiusto e sbagliato. Ingiusto perché negli anni la situazione sarebbe molto migliorata in generale dal punto di vista della sicurezza (anche se nessuno nega che ci siano dei problemi), sbagliato perché se si continua il racconto negativo sulla via non si farà altro che tenerla ai margini dello sviluppo cittadino. E infatti va ammesso che non erano tanti i commercianti aderenti alla manifestazione della Lega o alla presentazione del libro di Sardone. Invece erano più numerosi i contestatori. Forse solo una questione di organizzazione, forse i leghisti soffrono del calo degli iscritti registrato su Milano e provincia negli ultimi anni. Ma il dato numerico dell’altra sera è innegabile. E allora su resta il dubbio su via Padova: ha ragione Sardone o i commercianti? Perché alcuni di loro sostengono che non servano gli appelli a più sicurezza e controlli, ma sarebbe più utile invece iniziare a lavorare in positivo sulla via. Creare uno storytelling positivo come si usa dire nel presente. Il dubbio resta aperto e potrebbe essere un’idea creare un evento pubblico in cui discutere seriamente del tema, sia con chi la pensa in modo che con chi la pensa in un altro. Così sicuramente via Padova non avrebbe nulla da perdere e in fondo la questione importante dovrebbe essere proprio il destino di questa parte di città, non del singolo personaggio che ne parla.

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Crisi di nervi in Comune

Crisi di nervi in Comune. Repubblica, ormai sempre più house organ di Palazzo Marino, ci informa che per i dipendenti del settore Edilizia del Comune di Milano è stato attivato il supporto psicologico. Due ore di debriefing emotivo per sopportare lo stress della polizia giudiziaria che quasi quotidianamente chiede carte e conto del lavoro svolto. Ma non solo i dipendenti comunali sarebbero stressati dal “più alto grado di attenzione che i dipendenti devono impiegare nel controllo delle pratiche”. Pensa tu: e i milanesi che erano convinti che si facesse molta attenzione anche prima del rischio manette, perché essere dipendente pubblico non vuol dire godere di diritti più ampi dei lavoratori privati, ma avere anche la responsabilità della collettività. Perché se si autorizzano palazzi alla belino di segugio succede qualcosa alla vita delle persone, ma visto che pare non sia stata messa troppa attenzione prima l’Osservatore ha deciso di metterci del suo e piano piano sono partite le visure camerali sui 140 dipendenti spaventatissimi. Così da poter fugare ogni dubbio sulla correttezza del loro operato. Perché non è giusto sospettarli di aver facilitato certe pratiche edilizie solo perché viene facile pensare male delle persone. Specialmente se sono persone che hanno sempre fatto il proprio lavoro onestamente: infatti risulta che abbiano obbedito alle direttive dei dirigenti come l’attuale assessore alla Rigenerazione urbana Tancredi. Certo si può obiettare che aver obbedito agli ordini era la difesa di Eichmann, ma sarebbe un paragone ingiusto. Infatti è Tancredi che continua ad andare in Procura a parlare con il procuratore Marcello Viola, con un metodo che se applicato a Palermo o nel sud Italia verrebbe subito visto molto molto male, inutile negarlo. Ma la crisi di nervi in Comune tocca tutti i gradi della macchina comunale. E forse è presto per parlare di una nuova tangentopoli, forse. Quello nel caso lo decideranno i giudici. Magari con una mano visto che politici come Alessandro de Chirico di Forza Italia hanno chiesto la lista dei 150 progetti citati da Sala come aggredibili dalla Procura (per altro oggi Repubblica dice che potrebbero essere di più). Oggi però sarebbe il caso di continuare a dibattere di come si deve costruire a Milano. La città è solo terreno fertile per chi è sposato con le banche e può speculare creando case per pochi? O possiamo tornare a essere una città aperta per tutti? In cui ci sono case per viverci, non per tenere fuori i poveri?

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Nessuno ha chiesto la lista dei 150 progetti di Sala

Nessuno ha chiesto la lista dei 150 progetti di Sala. Perché? Forse perché si ha paura di inimicarsi i costruttori milanesi che hanno un ruolo simile a quello dei Caltagirone a Roma? Sono cioè i veri possessori dei palazzi del potere. Oppure è perché in quei 150 progetti oltre le leggi nazionali ci hanno messo le mani in tanti? Vorremmo capire come mai di fronte a un sindaco che ammette che buona parte delle opere edilizie in programma siano illegali o quanto meno oltre le normative nazionali, nessuno dell’opposizione chieda conto delle 150 opere da lui citate. Qui si parla di scali ferroviari, reinventing cities e molti altri nomi che significano semplicemente una marea di cantieri per tutta la città e che cambieranno il volto della città. Perché qui si parla di milioni di metri cubi che andranno per alto a occupare buona parte delle zone rimaste libere in città. Come è possibile che nessun consigliere di opposizione abbia intenzione di chiarire un punto importante per la città come la quantità immane di operazioni immobiliari che stando alle leggi nazionali sono fuori legge? L’opposizione potrebbe alzare il tiro per una volta e chiedere davvero conto a Sala di cosa sta facendo, perché sotto la Madonnina lui e “i suoi” (cit.) sembrano aver deciso di non chiarire mai il proprio operato. E quando qualcuno gliene chiede conto, reagiscono stizziti. Anzi, incazzati proprio. Come se chiedere a un sindaco e “ai suoi” di che marmellate stanno cucinando fosse un crimine di lesa maestà. Surreale? No. Nella MIlano degli anni Venti è tutto normale. E infatti nessuno ha chiesto la lista dei 150 progetti di Sala, perché cosa vuoi che interessi a 1,4 milioni di cittadini di cosa si sta facendo nei loro quartieri. Cosa volete che sia. E infatti ai sit in promossi da cittadini non viene né Sala né l’assessore Tancredi (ma viene Mattia Ferrarese), forse perché sono impegnati a cercare di capire come non finire in manette continuando a stressare i magistrati che finalmente hanno aperto una finestra sull’edilizia milanese. Peccato che nessun consigliere comunale se ne stia occupando.

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Il Comune non risponde sui 150 progetti di Sala

Il Comune non risponde sui 150 progetti di Sala. Abbiamo chiesto all’ufficio stampa del Comune di Milano se il sindaco Giuseppe Sala avesse intenzione di rendere pubblica la lista di 150 progetti indagabili dalla Procura di Milano. Perché se un sindaco dice che ci sono 150 progetti potenzialmente da manette per lui e i dirigenti del Comune, sarebbe pure il caso che qualcuno gli chiedesse conto di questi progetti. Chi li ha creati? Chi li ha firmati? Perché qui non si parla solo di soldi, si parla della città: ciò che hanno scoperto i magistrati (a cui va ancora un grazie), e hanno confermato i giudici, è che la “creatività costruttiva” di alcuni operatori immobiliari mette a rischio le infrastrutture dei quartieri. Vuol dire non avere più l’elettricità a sufficienza, vuol dire avere il rischio di fognature che esplodono, per non parlare di incremento del traffico, scuole sovraffollate e così via. Perché che piaccia o no a chi ha mosso certe pedine sullo scacchiere milanese, una città ha bisogno di cose intorno alle case. Per questo ci sono delle regole che non vanno derogate. Altrimenti i quartieri diventano inabilitabili. E poi arriva il degrado. E poi problemi decennali per la città. Intanto però chi ha firmato i progetti è sparito, magari dandosi al commercio di panini in Venezuela. Allora prima che si verifichi uno scenario del genere, e Crescenzago è sulla buona strada insieme a piazza Aspromonte, perché il Comune non risponde sui 150 progetti di Sala? Sarebbe il caso di agire ora prima di veder collassare la città sotto i colpi di un’eredità pesantissima vista la sua consistenza cementizia.

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