giuseppe mele

Meeting con l’assassino

Meeting con l’assassino. Ora, Biden non sa come prepararsi per l’incontro con l’Assassino. Forse con una nutrita schiera di guardie del corpo, dietro lo scudo delle quali colloquiare o ancora forse con un giubbotto antiproiettile molto tecnologico. L’anziano esponente democratico teme anche bevande, cibi e cerbottane tanto più che i russi hanno minacciato un summit lunghissimo, di 6 ore, per prendere probabilmente Biden per fame. L’uomo più forte del pianeta, con al seguito trenta eserciti nell’armata che è stata definita la più potente della storia, ha i suoi timori. Gli alleati non hanno attenuato i timori, in particolare i tedeschi, i più deliziati della definizione presidenziale di Putin killer. Il comune dolo tedescoamericano per i diritti umani e per la persecuzione dell’oppositore russo Navalny ha evitato, per contrappasso, sanzioni sul Nord Stream 2, la Nord Stream AG che lo costruisce e sul suo ceo Warnig, già agente Stasi e collega di Putin, quand’era spia a Dresda per il Kgb. All’incontro tra i due presidenti del 16 giugno non ci saranno così fughe di gas. Il gasdotto, anzi, il suo raddoppio, che unisce Russia e Germania, nella tradizione di Rapallo, caccia il resto dell’Occidente dall’Europa centrale e costituisce oggettivo ostacolo all’avvicinamento ucraino. Paradossalmente lo fa in nome del principio cardine occidentale, quello ecologico. L’eliminazione del carbone tedesco entro il 2030 è possibile solo grazie ai Nord Stream. L’UE nel ’90 importava da Mosca il 55% dell’energia necessaria; nel 2010 il 27%, dopo le sanzioni del ’14 il 30% ed oggi il 41%. Il vincolo ecologico vale più di tutte le sanzioni e lotte diplomatiche. Putin in Svizzera si siederà con il punto principale già incamerato, e non per sua richiesta. Est ed Ovest si incontrano prima e dopo le elezioni. In Russia a settembre si vota per la Duma. A luglio ’20 si è svolto il referendum sulle modifiche costituzionali che permette a Putin altri due mandati seieannali (nel 2024 e nel 2030). Sulla carta potere fino a 86 anni, per 36 anni, superando i 29 anni di Stalin, ma non i 43 di Pietro il Grande. Ogni volta che si vota in Russia, i sondaggi occidentali sembrano quelli di Rai3 o la 7 per il Pd. Prima rilevano il calo del partito di maggioranza, Edinnaya Rossia; poi mancata la previsione, passano ai brogli, imbrogli, regali e imposizioni. Si resta, arcigni e sospettosi, sul 76,69% per la terza elezione di Putin nel ’18; sul 48,77% nelle elezioni locali del ’20, dove Russia Unita ha perso solo a Tomsk, a Novosibirsk e Tambov, a favore di candidati vicini a Navanlyj, ma anche dall’opposto di Rodina (Madrepatria). La riforma, approvata dal parlamento e dalla Corte Costituzionale, poi votata a luglio ’20, è passata con il 77,9% sul 64% degli elettori. Sembra quasi suggerita da Conte, infatti elimina il vincolo dei due mandati. L’avvelenamento di Navalny da Novichok, in volo di ritorno in Russia, dopo le cure tedesche, il suo ennesimo incarceramento in Russia, le rivolte siberiane e dell’estremo oriente hanno fatto esplodere la pubblicistica occidentale, scioccata poi dalla messa fuorilegge del partito anticorruzione. Anche nel 2011 si erano diffuse proteste in tutta la Russia, veicolate dall’uso social di VKontakte su Internet. Il vaso di Mosca, preso dal lato delle rivolte di piazza, ha un fondo infinito, come ci ha ricordato Graziosi nell’unica vera storia dell’Urss in circolazione, nella quale ha elencato le tantissime sollevazioni avutesi durante il potere comunista che mai ne venne intaccato. Alla fine però le crepe sulla demotura russa si limitano al consenso sceso al 60%, in un paese dove il Covid ha lasciato 650.000 morti (tanti ma meno di Usa e Brasile) nell’ambito di un sistema sanitario deficitario malgrado la diffusione del proprio vaccino fin dall’agosto ’20 (che Putin ha fatto somministrare anche alla figlia); un paese dove il Pil previsto è più 4% a 4,5 punti di inflazione. Inutile sperare sulla fine del consenso. Al summit il presidente russo va con un forte mandato elettorale, magari con la pecca di sostenere quello bielorusso rieletto con elezioni assai più discutibili. Sarà più che ottantenne se vincerà tutti i mandati possibili. Biden è già ora quasi ottantenne, al primo mandato dopo mezzo secolo da congressman. E’ l’America che è divisissima su idee, visioni, politiche, non la Russia. Così il problema elettorale si sposta da Mosca a Washington, dove si temono le ombre del Russiagate in ogni dove. Perché in 81 milioni hanno votato per Biden ma 74 per Trump (34% astenuti) ed i due elettorati non sono mescolabili soprattutto se la realpolitik conduce Biden a proseguire le politiche trumpiane. L’incubo dell’hacker russo è perfettamente legale. E’Kasperskj il cui antivirus ha conquistato il mercato Usa. E’ Snowden le cui rivelazioni e fuga nel 2013 vengono protette in Russia. E’ il Codice Durov descritto dal giornalista Kononov. I fratelli Durov, Pavel e Nikolai, l’uno vissuto a Torino, l’altro a Bonn, inventano nel 2006 da palazzo Singer sulla prospettiva Nevski, VKontakte, piattaforma universitaria che si fa grande social network, più semplice, più veloce, condensato di YouTube, Facebook e Spotify.Malgrado l’amicizia con Surkov, ideologo di Russia Unita, nel 2012 l’United capital, fondo vicino al Cremlino, compra la maggioranza di VK; Pavel vende il suo 12% e nel 2014 non è più Ad. Lascia un social da 500 milioni di iscritti con il logo del cane che pernacchia il potere. L’anno prima però Pavel, stesso anno di nascita di lancia Telegram, l’app di messaggistica istantanea all’insegna della privacy più stretta. Ragion per cui la nuova società si sposta con il proprietario, Isole americane Saint Kitts e Nevis, Finlandia, Indonesia, ora Dubai. Gli avvocati rispondono da Berlino. Se VK era russo, ancora oggi frequentato da occidentali putiniani, Telegram è globale, vicino a 500 milioni di utenti; minacciato parimenti in Cina, in Iran, in Europa ed a Mosca. In Russia non c’era un Icann ed il Roskomnadzor, l’organo sulle comunicazioni, si è evoluto inseguendo Vk e Telegram. Alla sbarra alla Duma, Pavel nel ’18 non cede sull’identità dei clienti; al contrario di Zuckerberg che al Congresso

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La scissione della sciabola di Livorno

La scissione della sciabola di Livorno Il 1921 per come fu veramente 1921, cent’anni fa il Milite ignoto. Cento anni della Moto Guzzi e della istriana Valli. Cent’anni di Fucini morto e di Sciascia vivo. Cent’anni del Gran Premio d’Italia. Cento anni del Vittoriale e dei 6 personaggi in cerca d’autore. Cent’anni del cerotto e di Chanel. Cent’anni del massacro razzista di Tulsa. Ed anche cent’anni fa si scriveva dei secolo precedente come fece Rovani nei suoi Cento anni, storia di un maggiordomo di famiglia milanese, Galantino, tra 1750 e 1850. In quei cento anni precedenti, i bottoni madreperlati gallonati sulla livrea non cambiarono praticamente mai, né al ritorno delle bianche parrucche cotonate dei codini reazionari, né con l’avvento dei ciuffi neri romantici e degli angolati baffi. L’Europa allargata era (quasi) tutto il mondo ma soffriva dell’epilessia della perdita dell’assolutismo, cui non sapeva trovare un sostituto. La tarantola francese – repubbliche, impero, regni, repubblica, impero e repubbliche – ha trovato pace solo nel generale imperatore, autocrate democratico. Ruolo non facile ad osservare il rosso fuoco delle glabre guance schiaffeggiate di Macron. Accartocciata in lotte dinastiche sanguinarie tra i più anticlericali e anticlericali d’Europa, cioè del mondo, la Spagna si è acquietata nell’assolutismo militare dei reggimenti musulmani che imposero la croce. Ancora chiuso in quell’armatura, l’istinto donchisciottesco la guida a scoperchiare tombe ed a dividere l’opera del Cid. Le Germanie, divise, riunite, divise in tantissimi pezzi, riunite, divise e ora demurate più che riunite, vennero unificate dalla terra più lontana, più brumosa, quasi non tedesca. Proprio come l’ultima pedemontana di contadini soldati usi ubbidir al loro Corsaro Nero di Guasgogna (no, di Savoia) riunì i dialettici e litigiosi italiani. Ci riuscì proprio da non italiana. L’Oriente lontano, la barbarie, i nemici della croce e del diritto erano proprio lì, sull’uscio di casa. Un passo fuori Venezia e ribolliva tutta la schiuma del Sultano erede del bizantino (e tuttora la bellezza di San Marco sta in quella schiuma depredata). Due passi fuori Vienna ed ecco il deserto dei tartari, l’attesa dei mongoli, delle Russie, del Gobi, delle Persie, intrecciate con le fantasticherie cinesi. Pechinesi sembravano i polacchi dalle lunghe scimitarre. Solo l’impalatore mostruoso Drakul poteva fermare l’Ottomano. Eppure tutti i popoli di quelle terre balcaniche, caucasiche, carpatiche, curlande erano e sono Europa. L’assolutismo li manteneva nella favola, nel mito e nell’incubo ed insieme li voleva gestire nella legge e nei comuni reggimenti dei baffi unti di sugo. La fine delle teste coronate aprì il vaso di Pandora e mille tesi, filosofie, credi si riproposero come nuove guerre di religione, vecchie jacqueries sociali. Gli intellettuali che si erano sforzati durante l’assolutismo di dare un senso religioso allo Stato laico, che avevano dimostrato che Dio esisteva razionalmente e che il mondo non poteva essere migliore, possibilmente, si dedicarono alla ricerca della gioia triste dell’inutilità della vita. In un caso era disdicevole quella altrui, nell’altro la propria. Certo, si sarebbe potuto buttare via tutta la storia precedente e fare a chi spara più veloce; oppure fa più danaro, oppure è formidabile a bracciodiferro. Con la clausola di azzerare la memoria ogni giro. L’Europa, lei, no; non è capace. Malgrado tutto, deve sempre tirarsi dietro una rete pesantissima colma di ori e gusci di noce, che risale agli hittiti ed agli egizi, europei della storia enlarged. Così cent’anni fa c’era il vuoto. Più che esserci qualcosa, c’era la fine del senso delle cose. In una epilettica danza Hitler poteva passare da imbracciare il bracciale rosso della Baviera comunista a quello dei Frei Korps; gli ebrei potevano esporre lapidi sulle scuole israelitiche per i caduti della Grande guerra e marciare con repubblicani per aderire all’associazione combattenti e poi finire nei fasci. Tutti erano convinti che tutti fossero uguali e che solo per caso i boemi combattessero per i tedeschi ed i sudafricani per gli inglesi. Sostenevano che la Bessarabia fosse rumena, no russa. Che le frontiere della Francia fossero quelle della Libertà; che i polacchi, appena usciti dal giogo, volessero Wilno, Mosca e Kiev. Che l’Ungheria, senza sbocco al mare, si sarebbe affidata all’ex Ammiraglio austroungarico, così, per nostalgia. Il turco con un secolo e mezzo di ritardo si era fatto illuminista, beveva, bestemmiava e ammazzava meglio di prima greci ed armeni. Il tempo era (ed è) a multistrato, lo zar lo fucilarono due secoli e mezzo ed un secolo e venti anni in ritardo rispetto ai decapitati Carlo e Luigi. Il processo Kaiser lo processarono perché tutti i popoli avevano gli stessi diritti; o no? Allora, si diceva che il più forte, quello che spara più veloce, avrebbe rimesso i debiti (no, i crediti) e governato per tutti; invece si ritirò perché non era ancora il più forte. Il deserto dei tartari, lungi dall’essere controllato, avanzava fino alle colonne d’Ercole. Tutti ne parlavano con acume e analisi. Il cancro europeo veniva studiato, a sangue freddo, nel vivo del carcinoma tra Repubblica, Monarchia, Direttorio, Ottimato, Signoria, Dominium, Città Stato, Principato Vescovado, Città Libera, Repubblica Sovietica, Repubblica Socialista. Ci voleva un nuovo Dio in terra. In Vaticano dicevano che la stella a cinque punte moscovita fosse Satana. Anch’esso, però di natura divina. E comunque anche gli dei falliscono. Infatti alla ribalta arrivarono i Masanielli, gli accatoni re assoluti, che come cantava Bowie, abbronzati pallidissimi, sapevano suonare la chitarra. Tutto è bene quel che finisce bene. Le Europe (che restano quasi tutto il mondo) sono rimaste epilettiche, ma incapaci di far male a sé e agli altri. Doberman senza unghie, leoni senza zanne, animali anziani che si indignano per la cura della cucciolata, la fornitura dei pannoloni ed il passaggio insolito di cloud. Non era così diverso lo spirito dei rappresentanti di 4367 sezioni socialiste riuniti al congresso del gennaio 1921 a Livorno. Avrebbe dovuto tenersi a Firenze ma i convenuti temevano le bravate della fascista Disperata del nobile spiantato Perrone Compagni. Nella città labronica il prefetto Gasperini garantiva la presenza di 3500 uomini tra soldati, guardie regie, carabinieri ed autoblindati. Il ferroviere Barontini, un altro migliaio della volontaria

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Liberali, che intolleranti

Liberali, che intolleranti. C’è un malato nella politica italiana. Non è il solo, anzi. In giro ci sono proprio degli zombie, defunti imbalsamati, come comunismo, socialismo, azionismo, sindacalismo, resistenza, su cui gusci vuoti di partiti praticano un infinito accanimento terapeutico senza nemmeno sapersi spiegare il perché. Il caso in questione è però un’araba fenice, che ci sia ognun lo dice, ma non si sa mai dove abbia parcheggiato anche se tutti i parking sembrano prenotati a suo nome. Il liberalismo è malato di gigantismo rarefatto; lo si ritrova, rivendicato e osannato, ovunque, a sinistra, a destra, al centro, in basso, in alto. La parola libertà è comparsa negli slogan e nei simboli di tutti. Eppure decine di migliaia di persone, in un innumerevole elenco di partitini, partitucci, movimenti e reti, cercano incessantemente l’isola liberale non trovata. Nel mondo semplice di un tempo, quello dell’uomo che non si interrogava su se stesso, né per i motivi che lo invogliavano verso la donna, i liberali fondarono l’Italia. Importarono l’ approccio secolare estero, adattandolo con grande moderazione. mutuato da esempi esteri, importati molto. Forgiarono il primo mezzo secolo unitario italiano, a modo loro, come un blocco parlamentare, senza essere nemmeno un partito o averne il nome. Vennero chiamati a suo tempo notabili con accento orgoglioso o con disprezzo; e coincidevano con i proprietari, con i professionisti, talvolta con gli aristocratici. Erano come un Senato romano senza il Popolo; e venne loro rinfacciata una democrazia monca senza suffragio universale. Nondimeno lo regalarono al paese, aprendo il potere ai partiti delle masse analfabete, socialisti, fascisti, cattolici. Cominciava il tramonto dei liberali perché il Popolo cancellò subito il Senato. A scuola insegnano che liberale non sia una posizione ma solo una qualifica; come dire, non una pietanza, ma una salsa. Insegnano, con tanti di nomi esemplificativi, che si può essere liberali di destra e di sinistra; socialisti e liberali; liberali e conservatori; liberali e credenti o agnostici. Poi si è litigato sui liberali comunisti alla Rodotà; sui liberali populisti, liberali islamisti, liberali fascisti e razzisti. Che nessuno si inalberi; i fondatori degli Usa, grandi liberali, erano razzisti e schiavisti praticanti. Gobetti non era di sinistra, semplicemente sui bolscevichi aveva sognato. I postcomunisti per dirsi liberal sovrapposero Kennedy a Berlinguer. Friedman era filo Pinochet e Roosevelt stalinista. Nonostante tutto, il brand liberale mantiene un certo fascino; anche se svuotato, annichilito, tumefatto, nessuno vuole escluderlo dal piatto, anche se solo come salsa di contorno. Un liberale alleato fa sempre fino, dà un tocco di eleganza. Si tratta sempre di personcine per bene, educate, intellettualmente competenti, professorali, spesso ingenue e deboli di spirito, cui proprio la liberalità impone l’indole aperta alle opinioni altrui, l’instabilità delle posizioni, una certa transigenza decisionale ed esistenziale. Si fecero trascinare in comportamenti biechi affamatori da commercialisti ottusi, da Sonnino a Monti, inchiodati sulla parità di bilancio. Shakerati dal fascismo nel Listone, dalla spiritualità superiore di Croce per distinguersi dal’idealismo di Gentile, dalla monarchia con Einaudi ed il nostalgico segretario Lucifero, cugino del Ministro di Real Casa, dalle partecipazioni statali nel pentapartito; riuscirono con i Gobetti, Rossi, Villabruna, Pannella a fare compagnia, come niente fosse, con bolscevichi, freaks, yuppies, destrutturazioni sociali, derisioni istituzionali e diritti di massa a go go. Dopo Mani Pulite, la diapora: a destra, Martino e Scognamiglio nel partito liberale di massa di Forza Italia; il gruppo di Basini in An e poi in Lega; Costa, Biondi e De Luca fondatori dell’Unione di Centro che finì con Casini; a sinistra, con i radicali, in Alleanza Democratica mentre l’Unione Liberaldemocratica di Zanone finì con Segni. Fino allo strazio finale della divisione nella divisione, Diaconale e Taradash a favore dell’entrata dei liberali nel fu Pdl contro Guzzanti e il siciliano De Luca che volevano impedirlo ( e la bandierina di Cavour è rimasta nel Trapanese). Sempre invisibili nel voto, in numeri primi percentuali, a parte l’exploit al 7% tra ’63 e ’68, dell’opposizione di Malagodi e del Costa confindustriale alle nazionalizzazioni, che fruttò il ritorno al governo del ’72. Gustosissima materia, quella liberale sembra gradevole solo se di contorno; tanto più che il suo dibattito non è come quello, tifoso calcistico, delle altre formazioni. Discutere con i liberali significa affrontare montagne di pensiero, di tomi e conoscenze, dal Nobel Hayek, von Mises, Leoni al Popper della società aperta; dal Friedman della tassazione negativa al Laffer della curva qualitativa, base delle fiscalità di Reagan e Thatcher; dei loro scontri con i Nobel Modigliani e Stiglitz, con Keynes i cui seguaci Alesina e Giavazzi, cortocircuitati nel miglior moltiplicatore della spesa privata. Tale dibattito, sviluppato nei decenni contro marxismo e comunismo, si è poi ritorto contro gli autori. Come avrebbe detto Cipolla, le tesi degli Intelligenti (che fanno il proprio e l’altrui vantaggio), rivolte agli Stupidi (che causano danni ad altri ed a se stessi) hanno prodotto l’esito contrario. Oltre alla mancanza di consenso popolare, infatti ai liberali è mancato anche quello culturale. Malgrado l’altissimo livello intellettuale, la divulgazione generale, come ricorda il sudafricano Khan, in tutto l’occidente ha disseminato odio per progresso, impresa, denaro e mercato. Anche se sarebbe bastato, con l’80enne McCloskey (nata uomo e marxista, poi donna di Chicago) ricordare che il libero mercato in due secoli ha aumentato il reddito del 3.000%. I liberali però non hanno concretamente difeso il punto fermo del libero mercato, nella libertà economica di liberi contratti, dove sta, secondo il simplicissimus Rampazzo, il liberalismo. La libertà economica, della libertà politica implica che non sia corretto distinguere tra merci immorali e morali, salubri o meno; o sono velenose o non lo sono. Implica che la burocrazia non possa obbligare privati a svolgere compiti, come i fiscali, che non competono loro. Se le attività sono troppo complesse per la burocrazia medesima, vuol dire che sono demenziali e devono essere semplificate. Più burocratica è un’organizzazione, più lavoro inutile tende a rimpiazzare il lavoro utile (Friedman) . Oggi in Italia spesa e tasse sono quasi metà del Pil, non il 20% dell’epoca di Keynes, sostenitore all’interventismo pubblico. All’inizio dei ’90, l’80% dell’economia nazionale

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A gamba tesa nel calcio ed in politica

A gamba tesa nel calcio ed in politica. Nelle competizioni sportive più note ci sono sempre grandi club che si alternano alla vetta. Per esempio nel calcio al top ne troviamo cinque, Juve, Inter, Milan, Roma, Napoli. Uno spaccato di lettura del paese che si focalizza su precise città e aree, Milano, Torino, la Capitale e Napoli. Anche il primato sportivo è figlio delle vicende economiche, sociali e demografiche. In politica la stabilità, al limite dell’immobilismo era la regola; merito e colpa dell’elettorato che non si faceva sviare dall’irrompere tempestoso di sempre nuove idee e sorprendenti eventi. Molto variegato il campo dei sostenitori del sistema cui contrapposto stava quello dell’antisistema. Per paradosso più il sistema funzionava bene, più avanzava l’antisistema, anche quando passava a sistemi terroristici. Questo per 50 anni. A metà anni 2000, la Juve perse il primato d’ufficio e venne retrocessa non sul campo. Vinse Milano allora, proprio mentre calava inesorabilmente l’influenza della Mole a favore dei meneghini. In breve tempo l’ex primatista tornò tale. Dieci anni prima, per squisiti fattori esogeni, era stato ugualmente squalificato ed eliminato il campo politico sistemico. Quello antisistemico di prima l’avrebbe dovuto sostituire. Invece il blocco sistemico, scomposto e ricomposto, si ripresentò e riprese il primato finché di nuovo interventi esogeni non lo spaccarono e quasi riuscirono a farlo retrocedere. Nel 2014 il Pd arrivò al 40 % dei voti mentre nel ’94 Forza Italia aveva superato il 30%. Se la Juve non fosse stata retrocessa solo una volta, ma più di una volta o a ripetizione cosa sarebbe successo? E se dopo di lei lo stesso trattamento fosse stato imposto anche alle milanesi, la lotta al vertice calcistico sarebbe stata rivoluzionata del tutto. Al top sarebbero arrivate le squadre centromeridionali e via via new entries settentrionali avrebbero conteso loro la vittoria, mettiamo Atalanta, Sassuolo e Lazio, governate da imprenditori provinciali, assunti anche a grandi incarichi istituzionali. Ed in politica è successo proprio questo. Il Pd nel primo decennio del nuovo millennio stava attorno al 30% poi nel secondo dopo l’exploit iniziale è calato sotto il 20%, ora vagando attorno al 15%. Il ruolo di Bergamo e Lazio l’hanno preso Lega e Fratelli d’Italia, La Lega dalla nascita aveva vagato attorno al 5% di media per poi scalare posizioni fino al 17% del 2018, al 34% del 2019 ed al 20% odierno. Fratelli d’Italia, che ereditava una quota di poco inferiore al 15%, aveva superato il 5% solo nel 2019 ma ora i sondaggi lo valutano quasi al 20%. Un team che arriva al vertice arrivando dalla serie B, un altro addirittura dalla C. L’altra formazione, al momento apparentemente di sinistra, oggi al vertice, è i 5 stelle, sempre più in dissoluzione, pura voce dal sen fuggita (se non da altra parte meno nobile). Quasi il 60% dell’elettorato predilige due partiti fortemente di destra, diversificati solo dall’estrazione etnica tipica di Milano e Roma; ed una formazione di pura indignazione destinata all’evaporazione alle prossime politiche. L’altro più 15% che 20%, ex antisistemico, resta stretto attorno al partito che si identifica con il regime, con il potere, con le istituzioni soprattutto internazionali. Non è tanto diverso nel calcio delle decine di migliaia di club dilettanti ancora nostalgiche del presidente Tavecchio dalle gaffes razziste, cacciato con un quasi colpo di stato; ed in quello top in lotta con Figc e Fifa. Tutto il mondo è paese e tutte le tendenze, in ogni settore, finiscono per coinvolgere. Solo questo giustifica che le destre, abbastanza estreme, possano essere arrivate a coinvolgere un elettorato potenziale da 11 milioni di persone. Lo stesso elettorato che fu del pentapartito, di Forza Italia ed in larga parte del Pd renziano; la maggioranza silenziosa, la massa di chi è stufo dei processi, delle eccessive regole, dell’ambientalismo, dei ladruncoli di massa, dell’emigrazione, degli omosessuali e compagnia cantando, dei diritti, dei cantieri chiusi, dell’immobilismo, dell’impoverimento, dei lamenti femminili e delle umiliazioni internazionali. E che alla prossima pancia gravida maschile posticcia, è pronta a reagire con l’eliminazione di aborto e divorzio. Malgrado tutti si dicano liberali, questa massa ha perso molta liberalità, perché ha pagato molto caro tutta quella offerta in passato con premurosa sollecitudine a brigatisti, magistrati, alleati internazionali, indignati, nigrizi. E si sente limitata perché nessun partito offre sostegno ai fumatori, propone l’eliminazione delle cinture di sicurezza e smantella le piste ciclabili. Idee che sembrano impossibili ma che lo sarebbero molto meno in caso di vittoria elettorale delle destre. Più queste sono cresciute e più il povero presidente Mattarella si è dovuto arrovellare, almeno dal 2017, contro il rischio elettorale. Queste destre, infatti, hanno corpaccioni da giganti ma teste da adolescenti, malgrado una lunga e lunghissima storia. Come formazioni border line, hanno sviluppato mentalità, metodi e approcci minoritari non bisognosi di confrontarsi con i grandi poteri finanziari, commerciali, industriali e militari internazionali che oggi hanno svuotato di reale importanza la nostra politica, pur nel paradosso che l’economia è tornata quasi tutta pubblica e che il liberalismo occidentale oggi è un mix di iperimperialismo di classe ed esaltazione dell’unter proletariat. L’alterità di destra, che né Lega e Fratelli, possono cedere pena la perdita di voti a favore dell’altro, non è un rigurgito di Salò ma il possibile rifiuto di innovazione eterodiretta, trattati e sistemi regolatori, in una parola del sistema internazionale dove ormai abbiamo un ruolo da punching ball e che ha facili mezzi per strangolare un paese come il Nostro, come già dimostrato. Ammettiamo che all’ennesimo sequestro di pescherecci o all’arrivo di barconi si reagisse giustamente con mezzi militari, magari con l’occupazione di una striscia di Tripolitania, mettendo in mezzo navi delle Ong olandesi e tedesche. Dovremmo reggere le reazioni di vari mondi extraeuropei e la pressione degli alleati di Nato ed Unione, con numerose quarte colonne interne attive e sanguinarie. Sarebbe in grado di reggere la maggioranza silenziosa? Gli uomini delle istituzioni non partirebbero subito per Brindisi? Anche fra i club di calcio più importanti, due paroline europee irate sono bastate per farli ritirare dal contratto della Superlega, già firmato. Non siamo

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ZumZan

ZumZan. Ci fu il PdUP, partito di Unità Proletaria, e più famoso il PSIUP, partito socialista italiano di Unità Proletaria. Le identità non furono sempre proletarie ed ad un certo punto scappò fuori anche un PDIUM, partito democratico italiano di Unità Monarchica. Ora i partiti, opposti ma ravvicinati da un insopportato abbraccio, si accapigliano attorno ad uno strano disegno di legge, il ddl Zan, che già onomatopeicamente, sembra un kid asiatico di giochi marziali. E’ un campo ostico, al crocicchio dell’incontro tra la psicologia delle folle dei folli e la sociologia dell’irrealtà, ma d’altronde a questo spazio sono stati confinati i partiti per bonaria concessione dell’alto Olimpo il cui cervello è in ben altre cose affaccendato. L’oscuro contenuto della proposta legislativa è stato iconicamente chiarito dalle copertine delle riviste più squisitamente e cristallinamente di sinistra. Ne è uscito un EFdUM, ente femminino di Unità Maschile, che probabilmente ed auguratamente gemmerà omologhi quali l’ EMdUF, ente maschile di Unità Femminile, senza lasciare in un angolino gli EFdUF ed EMdUV, ente femminino di Unità Femminile ed ente maschile di Unità Virile. La comparsa iconica di questi topoi ha fatto scaturire un respiro di sollievo. Era tempo infatti, sia nel mondo materiale ma soprattutto in quello virtuale, cui tutti sono ora sottoposti, che ogni corteggiamento e seduzione si muovevano felpate sempre sul terreno di reprimende, delusioni e malcelati sospetti. Una bella donna, alta, dalle forme generose, dallo sguardo seducente, dalla bocca gonfia e suadente, faceva sudare freddo al pensare che molto presumibilmente sotto fosse maschio ipercelato. Certo, una volta verificato che non fosse presente nel database mentale e professionale delle giornaliste veline, categorie ormai abbastanza confuse. E d’altronde un bel ragazzo ben piantato, dai modi forti e gentili, dal franco sorriso, alla prima impressione un vero principe azzurro, finiva quasi sempre per deludere donne e ragazze, una volta appurato, che si trattava di un appassionato dei simposi platonici. Alti lai femminili andavano di qua e e di là costringendo il genere rosa ad emigrare in campagna e provincia alla ricerca dei Corona perduti, destinati loro malgrado alle carceri o all’eremitaggio di alta montagna. D’altronde, era chiaro secondo la vox populi che, per esempio, a Milano di uomini veri non ce ne fossero più, almeno tra quelli occupati e di danaro muniti. Impossibile immaginarsi di ragazzi corteggiatori con mazzi di fiori in mano, che in fondo distruggono la natura. Le mode hanno una forza inenarrabile soprattutto se durano decenni. Sotto una certa età non si può non essere tatuati in tutto il corpo, anche in posti improbabili; né si può non essere ferrati da metalli e anelli pensati per regolare rudemente la vita delle mandrie. Già questo divide popolo e politici tra i quali, tantomeno fra i pentastellati, non figura nemmeno un tatuato ferrato. La moda con il ditino stabilì un no deciso al troppo testosterone come se nell’aria girasse assieme alla cocaina bromuro a volontà. Molti gli impedimenti alla virilità, a partire dal mancato accesso al mercato del lavoro molto selettivo sulla cosa; proseguendo con le attenzioni delle autorità giudicanti per il facile sospetto di predisposizione a violenze ed eccessive attenzioni, dette stalking oltre un certo livello di reddito, facilmente riscontrabile dal proprio Isee. Quell’idiota del virile finiva sempre per incitare la meno adatta a rimanere incinta. Chiaro che una cosa del genere, notissimamente naturale, si dispiega come fascistissima, da violazione della Scelba, con doppie e triple ripercussioni repressive su tutta la comunità donnesca. Quell’atto violento e imperialista di irrorare le gonadi sarebbe stato pagato caro e tutto come un ricatto vita natural durante la quale, egli sarebbe stato schiavo di lei e del nascituro fino alla età della maturità che oggi i social collocano sulla quarantina. No, i ragazzi trovarono naturale farsi sedurre dal profumo del fard e dalle luminosità degli smalti che garantivano un certo controllo sul conto in banca, tranquillità e nessuna condivisione della casa da ereditare. Si fecero svagati e sciapi tanto che più che in giro, di femminilità valida non ce n’era poi tanta, una volta esclusi gli stangoni gonfiati di cui sopra. La rincorsa della parità di genere e l’opposto impegno a mantenere una silhouette irreprensibile aveva portato il combinato disposto di corpi femminili magherimmi, ossuti e appiattiti, su teste e volti irosi da bulldog che difficilmente si sarebbero detti di bulldog femmina. Esclusa, ma non sempre, la marmellata impastata di giornaliste e veline, il cui database veniva prenotato, come in un qualsiasi calciomercato, ben prima che si aprisse stagione. Disperate, fin dalla più tenera età, le donne si sono date al bere, cercando con le offerte di partouze più incredibile di farsi largo. Si cominciava con andare a letto con due uomini, e si proseguiva con tre o quattro, dopo aver aperto decine di bottiglie di birra con l’anello del naso di lui o lei. E non sempre bastava, perché ormai per cavarci un po’ di sugo, di uomini ce ne voleva un reggimento, dato il basso rendimento. La generazione youporn era femminile, per la prima volta. Ora il ZumZan arriva salvifico a salvarci da questo incubo di teste piene di sesso desiderato, in genere dalle qualità da codice penale ed una realtà sconfortante di mancanza di risorse adeguate, di offerta come di domanda. Tutti potranno essere stessi, confortati da desideri, fattisi reali, in quanto bisogni e dunque diritti. Le EFdUF sostituiranno il concorso in Rai, gli EMdUV andranno in galera con uscita eccezionale per copulazione richiesta da quel gentil sesso che se lo potrà permettere. Gli incroci improbabili di EFdUM ed EMdUF stabiliranno la supremazia della fantasia sulla realtà, in attesa della prossima indignazione naturista e naturalistica che porterà il politicamente corretto ad un ulteriore livello quantico. E soprattutto in attesa del partner robotico, summa delle fantasie più sfrenate, almeno fintanto che i robot non si faranno Ottavo Stato. Giuseppe Mele

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