Gaza come l’Iran degli ayatollah è l’altra metà della verità che finalmente emerge

Non solo terrorismo e fanatismo, poiché sotto Hamas le donne vivevano in una teocrazia che ricordava in tutto e per tutto quella di Teheran. Finalmente qualcuno lo dice, con la forza dei fatti e la chiarezza che mancava nel dibattito pubblico: Gaza, sotto il dominio di Hamas, era diventata come l’Iran degli ayatollah. Non solo per il terrorismo, l’odio religioso e la violenza cieca contro Israele, ma per la ferrea oppressione sociale e culturale che schiacciava le donne, controllando ogni gesto, ogni abito, ogni parola. L’articolo di Gian Antonio Stella uscito oggi sul Corriere della Sera rompe un silenzio ipocrita e apre uno squarcio su una realtà che troppi, per ideologia o per calcolo politico, hanno preferito ignorare. Le immagini arrivate in queste ore dalle strade di Gaza, con migliaia di donne che festeggiano la fine, o forse solo la sospensione, della guerra, raccontano molto più di quanto si creda e non una, nemmeno una, si è tolta il velo. Neppure in un momento di gioia, neppure per un istante. Un gesto che altrove, in momenti simili, era diventato simbolo di libertà e rinascita: basti ricordare le immagini di Mosul o Raqqa liberate dall’Isis, dove le donne ridevano mentre si strappavano via il niqab, lo bruciavano, lo calpestavano. O, più di recente, quelle delle ragazze iraniane che al grido di “Zan, Zendegi, Azadi”, donna, vita, e libertà, hanno sfidato la teocrazia khomeinista, rischiando il carcere o la morte. A Gaza, invece, nessun grido, nessun gesto. Solo il silenzio, solo il velo. E questo silenzio racconta una verità: Hamas non è stato soltanto un movimento armato o un governo fallito, ma un regime teocratico, un potere oscurantista che ha trasformato la Striscia in una piccola repubblica islamica, dove la donna non è individuo ma simbolo, dove la libertà personale è subordinata alla morale religiosa. Eppure Gaza, un tempo, era un’altra cosa. La Palestina di Yasser Arafat non imponeva il velo alle sue donne. Sua moglie, Suha Daoud Tawil, lo indossava solo in rare cerimonie ufficiali. Nelle università e negli uffici, fino agli anni Novanta, le palestinesi studiavano e lavoravano accanto agli uomini, libere nei vestiti e nelle opinioni. Poi è arrivato Hamas, e con esso la “campagna per l’hijab”, raccontata già nel 1990 da Rema Hammami, ricercatrice dell’università di Yale, nel suo rapporto Le donne, l’hijab e l’Intifada. Da quel momento, la Striscia ha imboccato la stessa strada dell’Iran dopo la rivoluzione del 1979: imposizione dell’abbigliamento islamico, censura, polizia morale, controllo dei costumi, repressione del dissenso. La testimonianza più forte arriva dal libro La ribelle di Gaza di Asmaa Alghoul, la giornalista che Le Monde definì “l’ultima donna libera di Gaza”. Alghoul descrive una società strangolata dalla paura, dove uomini in borghese pattugliano le spiagge per punire chi non rispetta le regole, dove avvocate, impiegate e studentesse sono obbligate all’hijab, dove anche solo discutere di libertà diventa un rischio mortale. Lei stessa ne ha fatto le spese, condannata a morte da uno zio militante di Hamas e costretta alla fuga. Il suo racconto, oggi, dovrebbe bastare a far cadere ogni illusione romantica sul “governo della resistenza”. Hamas non ha liberato Gaza, l’ha sequestrata. Non ha difeso il popolo palestinese, lo ha privato dei suoi diritti fondamentali, a cominciare da quelli delle donne. Ecco perché le immagini delle celebrazioni di questi giorni dovrebbero inquietarci più che commuoverci: perché non mostrano la libertà, ma la sua assenza. Perché dietro ogni volto coperto c’è una storia di paura, di silenzio e di controllo. Gaza, come l’Iran, insegna che la libertà non è mai solo una questione politica, ma prima di tutto una questione umana, e che non ci sarà mai pace vera finché metà della popolazione resterà prigioniera del fanatismo in nome della religione.


Il perdono come percorso di guarigione interiore

Perdonare è una delle azioni più difficili che un essere umano possa compiere. Eppure, è anche una delle più liberatorie, salutari e trasformative. Non riguarda solo chi ci ha ferito, ma prima di tutto noi stessi. Dopo un’offesa, una delusione o un tradimento, la reazione naturale è il risentimento. Ci chiudiamo, alimentiamo pensieri negativi, cerchiamo giustizia o rivalsa. È umano. Ma è anche una trappola. Perché quel rancore, se lasciato sedimentare, si trasforma in veleno emotivo che intossica mente e corpo. Molti confondono il perdono con la rimozione o la debolezza. In realtà, perdonare non significa accettare l’ingiustizia o cancellare il dolore. Significa scegliere di non restare prigionieri del passato. È un atto di coraggio che nasce da una consapevolezza più profonda: capire che ogni persona, anche chi ci ha ferito, agisce in base al proprio livello di coscienza e al proprio dolore. Fermare il flusso dei pensieri e delle emozioni negative è il primo passo. Quando riusciamo a osservarli con lucidità, senza identificarci completamente con essi, scopriamo che possiamo lasciarli andare. È in quel momento che comincia il percorso del perdono. Sempre più studi psicologici e medici confermano ciò che la saggezza antica ha sempre saputo: il perdono fa bene alla salute. Riduce lo stress, migliora la qualità del sonno, abbassa la pressione sanguigna, rafforza il sistema immunitario. Ma soprattutto restituisce pace interiore. Perdonare significa evolversi. È un gesto che apre la strada a una vita più leggera, più centrata, più autentica. Non è un atto improvviso, ma un cammino di guarigione. Richiede tempo, introspezione, talvolta dolore. Ma alla fine porta libertà. Peraltro, la parola perdono contiene la parola dono. Perdonare è davvero un dono che facciamo, prima di tutto, a noi stessi. È come sciogliere un nodo che ci impediva di respirare. È un elisir non solo per lo spirito, ma per tutto il nostro equilibrio psicofisico. Per chi è pronto a riceverlo, il perdono è anche un ponte. Un gesto che può ricostruire relazioni, ricucire ferite, restituire umanità al nostro vivere quotidiano. In un mondo che spesso premia la durezza e la reazione, scegliere di perdonare è un atto rivoluzionario. È dire al dolore: tu non mi definisci. È tornare a vivere in armonia con se stessi e con gli altri.


Verona, il sacrificio dell’Arma: il Paese piange i suoi servitori

Ci sono notizie che non si vorrebbero mai scrivere. Storie che lasciano un silenzio profondo ed impossibile da colmare. La tragedia di Castel d’Azzano, alle porte di Verona, è una di queste. L’esplosione avvenuta in un casolare, durante un’operazione di sgombero, su richiesta dell’A.G., ha spezzato la vita di tre uomini dell’Arma dei Carabinieri, il Luogotenente Carica Speciale Marco Piffari, il Carabiniere Scelto Davide Bernardello e il Brigadiere Capo Qualifica Speciale Valerio Daprà. Uomini che hanno onorato fino all’ultimo il giuramento di fedeltà allo Stato, compiendo il proprio dovere con coraggio e dedizione. Nel dolore di oggi, il Paese intero riconosce in loro il volto autentico dell’Arma: coraggio, spirito di sacrificio, senso del dovere. Tre vite spezzate mentre servivano la comunità, senza clamore, come fanno ogni giorno migliaia di uomini e donne in divisa. L’esplosione ha inoltre provocato il ferimento di undici carabinieri, tre poliziotti e un vigile del fuoco, fortunatamente non in pericolo di vita. A loro va il più sincero augurio di pronta guarigione e la gratitudine di tutti noi. Dietro ogni uniforme c’è una persona, una famiglia e una storia. C’è chi saluta i propri cari ogni mattina senza sapere se tornerà a casa. Eppure, continua a farlo. Perché crede nel senso profondo di una parola che oggi, troppo spesso, dimentichiamo il senso del dovere e del servizio. Il lutto che colpisce la comunità dell’Arma non riguarda solo chi indossa la divisa. Riguarda tutti noi, cittadini che ogni giorno camminano più sicuri grazie a chi vigila, interviene, protegge e spesso nel silenzio. Le tragedie come quella di Castel d’Azzano (VR) ci ricordano che la sicurezza non è un diritto scontato, ma il frutto di un impegno continuo e a volte pagato con la vita. E ci invitano a ritrovare un senso collettivo di rispetto e gratitudine verso chi dedica la propria esistenza al bene comune. Davanti a queste perdite, le parole sembrano sempre troppo piccole. Ma ricordare il nome, il volto e il sacrificio di questi uomini è un dovere morale. Marco Piffari, Davide Bernardello e Valerio Daprà restano un esempio di dignità, lealtà e servizio. Che il loro gesto estremo non cada nell’oblio, ma diventi un monito ed un insegnamento per servire lo Stato, e ciò significa, che ancora oggi, è credere in qualcosa di più grande di sé. Oggi l’Italia si stringe nel dolore, unita in un abbraccio silenzioso a tutte le famiglie colpite. Nel sacrificio di questi uomini vive la parte migliore di noi.


Roma, il Passaggio di Commodo apre al pubblico: un viaggio segreto nel cuore del Colosseo

Dopo quasi duemila anni di silenzio, il Passaggio di Commodo torna a raccontare la sua storia. Per la prima volta, il Parco archeologico del Colosseo apre al pubblico questo straordinario percorso sotterraneo, un corridoio a volta che collegava direttamente l’esterno dell’Anfiteatro Flavio al palco imperiale, il celebre pulvinar dove sedevano gli imperatori durante i giochi. Il passaggio risale a un periodo compreso tra la fine del regno di Domiziano (81-96 d.C.) e l’età di Traiano (98-117 d.C.), come testimoniano i timbri di produzione sui mattoni delle pareti. Era un’opera di grande complessità, con tre rami sotterranei, due brevi, orientati ad est-ovest ed un corridoio principale disposto in direzione nord-sud. A intervalli regolari, lucernari illuminavano e ventilavano l’ambiente, permettendo all’imperatore di raggiungere il suo posto in modo rapido e sicuro. Il ramo orientale, secondo alcune ipotesi, conduceva verso il Ludus Magnus, la palestra dove si allenavano i gladiatori. Le pareti e il soffitto erano riccamente decorati con cassettoni in stucco, pannelli marmorei, motivi vegetali ed animali, e scene mitologiche come Arianna abbandonata da Teseo o le nozze con Dioniso. Il legame con l’imperatore Commodo non riguarda la costruzione, ma un episodio drammatico. Secondo la Storia Romana di Erodiano, proprio in questo passaggio l’imperatore fu vittima di un tentato assassinio, ordito dalla sorella Lucilla. Il complotto fallì, ma lasciò un’ombra leggendaria su quel luogo segreto. Il passaggio venne scoperto tra il 1810 e il 1814, quando Roma era sotto il dominio francese, infatti fu interamente scavato solo nel 1874, dopo l’Unità d’Italia. Oggi, grazie a un grande progetto di restauro avviato nel 2024, torna a nuova vita. Gli interventi hanno riguardato le pareti a volte, gli stucchi, le decorazioni crollate e le superfici marmoree. Il corridoio è ora stabilizzato e reso accessibile grazie a nuovi supporti metallici, passerelle sicure e un sistema di illuminazione moderna che valorizza i dettagli senza alterarne la suggestione. Dal 27 ottobre 2025, i visitatori potranno finalmente attraversare il Passaggio di Commodo e rivivere la Roma imperiale in un’esperienza unica con un incontro tra archeologia, storia ed emozione. In un’epoca in cui Roma cerca un equilibrio tra tutela e valorizzazione del patrimonio e quest’apertura è molto più di una semplice visita. È un segnale di rinascita culturale, un invito a riscoprire il fascino nascosto della Città Eterna, dove ogni pietra racconta un frammento della nostra identità.


Corruzione nel Lazio: lo scandalo che sconvolge la Capitale

Ancora una volta la parola corruzione torna a macchiare le cronache di Roma. Un nuovo scandalo, un altro giro di nomi, intercettazioni, dimissioni e silenzi. Eppure, la sensazione è sempre la stessa: che nulla cambi davvero. Come umile persona, non posso tacere davanti a un fenomeno che, ormai, non è più un’eccezione, ma una consuetudine. Ogni volta che un’inchiesta tocca i palazzi del potere, la risposta è sempre la stessa: “fiducia nella magistratura”. Ma quanta fiducia può chiedere un Paese che sembra aver smarrito il senso stesso dell’etica pubblica? Non è più solo un problema di singoli. È un sistema che tollera, protegge e perfino normalizza comportamenti che dovrebbero essere inaccettabili. Un sistema che considera “abilità politica” ciò che, in realtà, è solo l’arte di eludere le regole. La corruzione non è solo un reato: è una ferita morale, un veleno che si insinua nella fiducia dei cittadini e la corrode lentamente. Ogni volta che un funzionario accetta un favore, ogni volta che una decisione pubblica viene piegata a un interesse privato, la democrazia perde un pezzo di sé. Serve un cambio di paradigma. La trasparenza non può essere uno slogan da campagna elettorale, ma una regola di comportamento quotidiano. Deve diventare la condizione minima per chiunque ricopra un incarico pubblico. Non ci interessa il nome, il partito, o il colore politico dell’indagato: ci interessa il principio. E il principio è semplice: senza integrità, non c’è istituzione che possa dirsi giusta. E chi rappresenta i cittadini deve farlo con onestà, senza zone grigie e senza compromessi morali, perché la credibilità di un Governo, di una Regione e di un Comune non si misura dai proclami, ma dalla pulizia dei propri comportamenti. La corruzione non si combatte solo con le Leggi, ma con l’esempio, con la formazione, la cultura della responsabilità e il coraggio civile di chi sceglie la trasparenza anche quando costa caro. È tempo di ricostruire un’etica pubblica condivisa, un nuovo patto di fiducia tra istituzioni e cittadini. Un patto basato su tre parole semplici, ma decisive: onestà, merito, giustizia. Solo così potremo dire, un giorno, che Roma, e con essa l’Italia, non è più la Capitale della corruzione, ma della rinascita civile.


Villa Glori, tra storia, arte e abissi nascosti: il cenote romano che pochi conoscono

Nel cuore del quartiere Parioli, Villa Glori si estende per 25 ettari, imponendosi come uno dei polmoni verdi più ampi di Roma. Paragonabile per grandezza a Villa Borghese e Villa Ada, poiché questo parco pubblico, Villa Glori, è oggi conosciuto per la sua quiete, le installazioni d’arte contemporanea e il panorama che offre sulla città, ma ciò che molti ignorano, è che sotto i suoi viali alberati si cela un mondo misterioso, un cenote romano, una cavità sotterranea profonda oltre cinquanta metri ed in parte invasa dall’acqua. La storia di Villa Glori è intrisa di memoria e patriottismo. L’area fu teatro degli scontri del 1867 tra i garibaldini e le truppe papaline, durante i quali Enrico Cairoli perse la vita nei pressi del casale, oggi ancora visibile nel parco. Per questo, fu inizialmente conosciuta come Parco della Rimembranza, in onore dei fratelli Cairoli. Solo in seguito, passata di proprietà alla famiglia Glori, assunse l’attuale denominazione. Nel 1924 il parco venne ristrutturato e arricchito con opere d’arte contemporanea, mantenendo però il fascino selvaggio di alcune sue aree meno battute. Ed è proprio in una di queste zone, vicino ai resti di un antico tempio e seminascosto tra la vegetazione, che si trova l’ingresso del cenote, la cui moderna riscoperta si deve all’archeologo e speleologo Carlo Pavia nel 1992. Il termine “cenote” proviene dalla lingua dei Maya e indica una cavità naturale colma d’acqua. Sebbene legato al continente americano, il fenomeno è presente anche a Roma, dove queste voragini sotterranee venivano utilizzate, già in epoca antica, come luoghi sacri e depositi votivi e proprio all’interno del cenote di Villa Glori, l’archeologo Pavia recuperò parecchi ex voto romani, oggi studiati come testimonianza di riti antichi e dimenticati. Il celebre archeologo ha raccontato la sua esplorazione nel volume “Nel ventre di Roma. Dall’abisso Charlie ai sotterranei della Capitale”, dove battezza questa cavità con il nome di Abisso Charlie. Il nome, volutamente evocativo, si rifà al gergo speleologico e militare per indicare luoghi estremi o difficili da esplorare. “Charlie”, infatti, è anche la lettera “C” nell’alfabeto fonetico NATO, probabilmente usata per codificare il sito in modo non convenzionale. Il cenote di Villa Glori non è un caso isolato. A Roma si conoscono altre cavità simili, come quella sotto l’Ospedale San Camillo, nota come abisso di Monteverde-Forlanini, ma il primato assoluto per profondità spetta al Pozzo del Merro, nel comune di Sant’Angelo Romano, il cui abisso naturale raggiunge oltre 400 metri di profondità, secondo gli studi condotti dall’Università di Tor Vergata. Pertanto, Roma, ancora una volta, si rivela una città a più livelli, dove accanto alla bellezza visibile si nasconde un mondo sotterraneo fatto di misteri, riti e storia millenaria. Infatti, Villa Glori, con il suo cenote dimenticato, ci ricorda che ogni angolo della Capitale ha ancora molto da raccontare, basta saper scavare.