L’arresto di Usāma al-Maṣrī Nağīm sul territorio italiano avrebbe potuto segnare un momento storico per la giustizia internazionale. Invece, si è trasformato in un caso diplomatico imbarazzante, una macchia sulla credibilità dell’Italia come Paese che si professa difensore dei diritti umani. Al-Masri è accusato dalla Corte Penale Internazionale (C.P.I.) di crimini gravissimi: torture sistematiche, violenze sessuali, omicidi, detenzioni arbitrarie nei campi libici dove venivano trattenuti migranti africani. Perciò, nonostante l’arresto in Italia, il “comandante” non è stato consegnato alla giustizia internazionale. È stato invece rispedito in patria con un volo di Stato, senza processo, senza estradizione, e neppure un’udienza pubblica. Secondo il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, a bloccare la procedura sarebbero stati “problemi formali”: incongruenze nei documenti, errori di traduzione, atti redatti in inglese. Una giustificazione che appare debole, se non pretestuosa, per un Paese che ha firmato lo Statuto di Roma e si è impegnato a collaborare con la Corte dell’Aja. Chi conosce il funzionamento della C.P.I. sa bene che gli eventuali difetti di forma non giustificano la mancata esecuzione del mandato d’arresto. Il governo italiano avrebbe potuto e dovuto chiedere chiarimenti, prorogare la custodia cautelare, sollevare eccezioni legali secondo i canali previsti. Invece, ha scelto la via più rapida: quella del rientro immediato. È evidente che non siamo davanti a una semplice svista burocratica, ma a una decisione politica. Il sospetto, fondato, è che il governo italiano abbia preferito evitare attriti con le autorità libiche, in un momento in cui i rapporti bilaterali sono cruciali per la gestione dei flussi migratori. Una logica di convenienza che però mina i fondamenti del diritto internazionale. Se ogni Stato potesse ignorare i mandati della C.P.I. sulla base di tecnicismi, l’intero sistema collasserebbe. L’Italia ha scelto di non collaborare con la giustizia, e così facendo ha offerto un salvacondotto a un uomo accusato di crimini disumani. Le reazioni non si sono fatte attendere. Il Tribunale dei Ministri ha chiesto l’autorizzazione a procedere contro Nordio, Piantedosi e Mantovano per favoreggiamento e peculato. Una delle vittime sopravvissute alle torture ha denunciato lo Stato italiano. La Corte Penale Internazionale ha aperto un dialogo formale con Roma per chiedere spiegazioni. È l’ennesima crepa nella reputazione internazionale dell’Italia. Peraltro, oltre alla responsabilità giuridica, c’è una responsabilità morale che pesa come un macigno. Che messaggio stiamo trasmettendo alle vittime dei crimini di guerra? Che il loro dolore vale meno della nostra convenienza geopolitica? Che la giustizia è negoziabile? L’Italia ama presentarsi come paladina dei diritti umani, ma in questo caso ha voltato le spalle alla giustizia internazionale. Non è sufficiente indignarsi per i crimini altrui se, quando si ha l’occasione concreta di intervenire, si sceglie il silenzio, l’omertà, il ritorno alla Realpolitik. La giustizia non si difende con i comunicati stampa, ma con il coraggio delle scelte. Se l’Italia vuole ancora essere credibile come Stato di diritto, è tempo di fare chiarezza, e non per compiacere la legalità internazionale, ma per rispetto verso noi stessi, verso la nostra Costituzione e verso tutte le vittime che attendono, e meritano giustizia.