9 Ottobre 2021

Salgari e Brooke non si (ri)conoscono nell’isola sommersa

Anche la Malesia ha il suo fim epico all’hollywoodiana. Giustamente Ai confini del mondo, del regista statunitense Haussman in una cineproduzione che vede, nell’anno del loro massimo attrito, ancora collaborare angloamericani, malesi e cinesi, è incentrato sul grande eroe locale, James Brooke, il Rajah bianco, sterminatore di pirati. Al terzo tentativo la Brooke Heritage Trust dei discendenti, l’ottantunenne artista Lionel ed i figli Jason e Laurence, tornati a Kuching, capitale del Sarawak fondata dal trisavolo, solo nel 2011, è riuscita a mettere sullo schermo le gesta del sovrano inglese d’India. Il primo tentativo era stato il progetto di documentario The life and times of Sir James Brooke of Sarawak del filmaker bolognese Cavazza per la sceneggiatura dell’artista Zecchini. Poi la Margate House Films aveva annunciato nel 2017 la cinebiografia per mano del regista russo Bodrov ma solo ora esce il titolo (non proprio nuovissimo, Edge of the world, il confine del mondo) grazie al pool riunitosi attorno all’amministrazione di Sarawak che ha potuto contare sulla digitalizzazione dell’archivio di Brooke. Non deve meravigliare l’entusiasmo con cui sono stati accolti gli ultimi (non) pretendenti al trono bornese; malgrado che due passi, nel minuscolo Brunei ci sia il sultano Hassanal Bolkiah, il monarca più ricco della terra, nella più grande palazzo del mondo, che ha introdotto ultimamente anche una sharia stretta e che è pure Ammiraglio onorario della Royal Navy. Nell’ampia parte del mondo, quasi tutta non europea, influenzata dagli anglosassoni, James Brooke resta un mito su cui escono biografie a getto continuo e che hanno ispirato una messe di autori da Conrad a Coppola, da MacDonald Fraser a Kipling. Nell’epoca del politicamente corretto, è tornata utile la riscoperta della sua omosessualità, che prima veniva fatta passare per un’invalidità dovuta alle ferite ai genitali, ricevute nella guerra anglo birmana del 1825. Le sue passioni vengono ricordate in India, Uk e Malesia dove si strinse ad un nobile cortigiano del 23° sultano del Brunei, Saifuddin II. Questo amore nel film diventa la passione omosessuale per Brooke (non ricambiata) dello zio del sultano, il Rajah Hashim, che nella realtà storica fu un prezioso alleato per l’inglese d’India, permettendogli di conquistare, poco a poco, la corte malese, con l’esplorazione di più di cento chilometri di costa del Borneo e del fiume Sarawak, con la repressione di quella che oggi chiameremmo rivolta sindacale dei minatori di antimonio e carbone contro Hashim e con la vittoria su nemici molto diversi tra di loro come i pirati della costa, i daiacchi ribelli detti uomini serpente, capitanati dal rivale Rajah Mahkota, ed i cinesi repressori degli stessi daiacchi. Per altro verso anche il quadretto romantico dell’amore dell’avventuriero per la bella malese Fatima, nipote del sultano, che Brooke sposò con rito islamico, avendone la figlia Fatima Brooke, risulta utile per sottolinearne l’anticolonialismo addirittura antinglese (di un Sir, cavaliere della Regina!), il pacifismo, l’amore per i fidati daiacchi tagliatori di teste, storicamente oppressi da cinesi e indiani, che Brooke preservò anche dai tentativi di conversione dei missionari cristiani (ma i civil servant erano tutti d’origine inglese). La passione del Rajah bianco per le effettive bellezze naturali della jungla sarawakiana, su cui si sofferma il film, è confermata da naturalisti come Wallace, Hooker ed il nostro botanico fiorentino Beccari che gli dedicarono le scoperte di nuove farfalle, piante carnivore e ben 130 specie di palme. Nell’avanzata colonialista ottocentesca in Asia, in presenza di regni organizzati e secolari, era una prassi la conquista mascherata da concessioni e rapporti di vassallaggio ad opera di coloni, armatori, militari e commercianti avventurieri. L’americano Lee Moses si prese dal Brunei in concessione il Sabah o Nord Borneo, dalla baia di Kimanis al fiume Seboekoe (passato poi al compatriota Torrey, Maharaja del Borneo del Nord, poi nel 1878 all’austriaco von Overbeck, Maharajah di Sabah e raja di Gaya e Sandokan, infine nel 1891 al britannico Dent). Anche il sultanato arabo di Solu fece la stessa fine mentre quello di Sambas che contendeva a Brunei la sovranità virtuale sull’inesplorato Sarawak, andò agli olandesi. Brooke era quindi in buona compagnia. Il Royalist, corvetta armata da 6 cannoni, gli permise di dettare legge sul Sultano, in difficoltà tra ribellioni, potenze coloniali e sfruttamento minerario di oro e carbone su terre in effetti poco conosciute; e gli venne concesso per 2500 sterline un Raj, governatorato sotto teorica autorità imperiale. Se non era pacifista, come lo descrive il film, Brooke però era nipote acquisito di Saifuddin II, uno di famiglia, insomma; il che gli permise di ottenere la piena sovranità su Sarawak da un lato, mentre si rifiutava, dall’altro, di cedere il trono alla Compagnia delle Indie cui consegnò solo l’isola di Labuan di cui venne nominato governatore. La sua vicenda, unica e da romanzo, diede origine ad una dinastia, durata un secolo. fino all’abdicazione di Anthony. Proprio come i monarchi inglesi della regione afghana del Kafiristan, raccontati da Kipling ne  L’uomo che volle farsi Re del 1888. La sua corte nel palazzo Astana a Kuching era pittoresca e stravagante, carica di esotici arredi europei e cineserie, con tutta la varietà delle tribù bornesi e la fedele ed adorante guardia daiacca acconciata con le decorazioni di guerra. Per gli inglesi nati in India come James, originario di Benares sulle rive del Gange, già sottufficiale del VI° Fanteria Indigena dell’esercito del Bengala della Compagnia delle Indie orientali era normale l’abitudine alle pratiche schiavistiche, poligami religiose locali, una promiscuità fisica e mentale assai poco vittoriana, che poi non impediva di garantire ordine e repressione. Ad un certo punto questo caravanserraglio acristiano scatenò il discredito inglese contro l’avventuriero sottufficiale, troppo poliforme. Pacifista che sparava con cannoni navali; scapolone gay, sposato musulmano, con due figli (oltre Fatima, ebbe George da una cameriera inglese riconosciuto tardivamente); Sir colonialista alfa ma nipote del Sultano. L’anatema però glielo diede nel 1896, Salgari ne I pirati della Malesia, terza opera del suo ciclo indomalese. Lo scrittore veronese tratteggiò il personaggio, realmente esistito, a trent’anni dalla sua morte avvenuta in Inghilterra mentre a Sarawak regnava il nipote Charles. L’ira salgariana non era

Salgari e Brooke non si (ri)conoscono nell’isola sommersa Leggi tutto »

La nebbia lontana dopo le elezioni russe

L’Assassino ha incontrato il suo Accusatore e l’ha convinto a firmare un piano congiunto contro i soliti hacker. Soprattutto ha ottenuto il consenso americano al Nord Stream II, capitanato da un vecchio collega di spionaggio del neozar russo. Poi la Merkel all’abbandono del suo ruolo storico di leader europa e tedesca, ha salutato il partner russo, con il lascito, direttamente sul suolo teutonico, di un gasdotto potenziato, che raddoppierà le vendite energetiche russe nell’Europa più ricca. L’UE nel ’90 importava da Mosca il 55% dell’energia necessaria; era scesa al 27% nel 2010, risalita al 30% proprio dopo le sanzioni ed oggi tornata ai valori quasi massimi del 41%. Dopo l’abbandono del nucleare tedesco, si impennerà ulteriormente. I prossimi passi del Macron francese, destinato ad una veloce scomparsa dalla politica transalpina, lo condurranno in braccio a Mosca, ora che l’ira parigina per gli accordi militari tutti anglosassoni del Pacifico è al massimo. Le elezioni per la Duma non potevano tenersi in un momento migliore per Putin, dopo il dribbling del voto recente americano e delle decisioni fondamentali tedesche, prese ancora prima del loro voto. E soprattutto a poche settimane dal disastro afghano Usa, terribile per sostanza ed ancora più per forma.  Così lo zar, dopo essersi garantito il Cremlino teoricamente fino al 2036, ha presentato il suo partito, o meglio di Medvedev, al voto popolare. Per un annetto, l’Europa ha evocato il de profundis per Edinnaia Rossia e Limes di Caracciolo si è spinta a vaticinare un futuro a pezzi per il gigante orientale. Quasi un decennio di sanzioni diplomatiche ed economiche contro il paese, ma anche contro 155 persone (grandi politici, militari, consiglieri municipali, giornalisti, burocrati, imprenditori, qualche starletta portavoce e pure lo scomparso Kobzon, il Sinatra russo), l’esclusione dal G8, contestate elezioni bielorusse con strascico di repressioni anche aeree e la colpa storica (assieme ai soliti tedeschi) dell’ultimo conflitto mondiale hanno costituito la base per l’indignazione massima per le persecuzioni subite dall’oppositore Navalny, erede del caso Khodorkovsky, (contestato tentativo di omicidio, cura tedesca, nuova condanna e nuovo imprigionamento in Russia, ulteriori  proteste  e repressioni). Una sorta di drole de guerre froide senza sbocco. Il tempo della condanna morale è stato però scelto male, troppo in anticipo. Passate le forche caudine americane e tedesche, tra le inutili proteste polaccobaltiche, mentre cresceva il pericolo cinese, le elezioni russe del 17-19 settembre con l’ineguagliabile cinismo russo, hanno visto Navalny in galera, il suo partito, Russia del futuro, considerato terrorista ed i social occidentali obbedienti nel bloccare siti, chatbot, messaggi dell’Umnoe golosovanie, lo Smart voting, che avrebbe dovuto coalizzare tutti i nemici del partito putiniano di maggioranza alla Duma. Il voto elettronico, attivato a Mosca per due milioni di elettori ed in varie altre regioni, doveva facilitare questa strategia ma invece ha finito per risultare d’aiuto al Cremlino. Pur nel calo della partecipazione di un elettorato, al 51%, che guarda alla politica con scetticismo, nell’ineluttabile e rassicurante stabilità, Edinnaia Rossia è passata dal 54,2% del 2016 al 49,79%, mantenendo la maggioranza parlamentare con un risultato simile al 2015. Fra i 450 deputati, può contare su 320 seggi (con una perdita di venti unità), cui si aggiungono i 23 liberaldemocratici del populista Girinovsky, sceso al 7,48%, i 18 di Russia giusta (7,41%) di Mironov, la coalizione cresciuta attorno a Rodina (madre patria) ed i 15 di Gente nuova (5,36%), formazione ecologista civetta del profumiere Naciaev, rivolta ai giovani. Gli sforzi liberali hanno aiutato i 60 deputati comunisti di Ziuganov, cresciuto al 18% (ma non del 25% come si era ipotizzato immediatamente dopo il voto). Un seggio cadauno tocca allo storico partito liberale Iabloko (Mela) all’1,3%, a Piattaforma Civica ed al partito della Crescita di Titov e Schnurov. Anche la proibita formazione navalnyana della Russia del futuro avrà il suo strapuntino, un eletto nelle liste uninominali. Gli strali americani, europei, delle Ong e dell’opposizione comunista si sono ora concentrati sulla decina di migliaia di denunce di broglio, di pressioni e violenze e sul lento meccanismo di comunicazione centralizzata del voto che, con la scusa del voto elettronico, ha smentito i trend del primo giorno di voto. Tutti i lai per il Donetsk in guerra muoiono davanti alle partite di Champions dello Shakhtar (Shakhtyor, minatore) Donetsk il cui portiere Piatov ha fermato l’Inter, anche se l’Uefa ha sostituito la sponsorship del colosso Gazprom con più ordinario Justeat. Fondata in epoca stalinista, con il nome Stachanovec, in onore del minatore ucraino Stachanov, la squadra del Donbass dal 2002 ha vinto numerosi campionati, coppe europee ed è campione in carica, giocando da anni lontano dalla sua regione e dal bel stadio, nuovo e tirato a lucido, della Donbass Arena. Ha dovuto spostare i campi di allenamento prima all’altro capo del paese, a Leopoli a 1000 km, poi a 300 km nello stadio del Metalist di Kharkiv (tra l’altro fallito) ed ora a Kiev. I brasiliani, di cui è farcita la squadra non risentono troppo dei cambi di geolocalizzazione, come neanche gli allenatori italiani che la guidano, ora De Zerbi, Nevio Scala al tempo del primo titolo nazionale. Il finanziatore, il miliardario Achmetov, dal nome tipicamente tartaro, rilanciò lo Shakhtar dall’amico Bragin, criminale poi saltato in aria. Paradossalmente l’imprenditore zar del Donbass, la cui azienda Sistema agglomerato di business è gemella della Sistema russa, è paradossalmente l’ex sostenitore del governo filorusso e padrone dell’esercito ribelle ed insieme l’unionista vicino a Kiev che vince i campionati. Il presidente ucraino Zelenskyi ondivagamente tiene alla sua amicizia per poi definirlo manipolatore, in Tv. L’ingigantita figura dello Smart Navalny e delle rivolte di piazza non hanno quindi lasciato traccia sulla Demotura russa, anche se i commentatori più evoluti si affrettano a ricordare che il sistema invecchia con l’età del suo presidente (che nel 2036 sarà 84enne). Certo a strascico di queste elezioni ci saranno ulteriori sanzioni contro personaggi politici e non, del Donbass e della Crimea. Nessuno toccherà però il mufti Kadyrov, padrone della Cecenia, che per il partito di Putin ha preso il 98,5% dei voti. Magari verrà sanzionato anche Urgant, la

La nebbia lontana dopo le elezioni russe Leggi tutto »

What do you like about this page?

0 / 400