In un angolo troppo spesso ignorato della provincia di Caserta, incastonata tra le curve dei torrenti Rio de’ Lanzi e Rio Pezzasecca, giace una città che un tempo fu avamposto strategico di Roma e cuore pulsante della Campania settentrionale: Cales. Oggi il suo nome sopravvive solo nei manuali di storia antica o nei cartelli stradali di Calvi Risorta (CE), ma sotto la superficie, in alcuni casi, sotto le corsie dell’Autostrada del Sole (A1), restano le tracce imponenti di un passato che parla, ma che quasi nessuno ascolta. Fondata originariamente dagli Ausoni, un popolo italico preromano, Cales divenne colonia latina nel 334 a.C., in uno dei primi esperimenti romani di colonizzazione militare al di fuori del Latium vetus. L’obiettivo era chiaro: controllare le rotte tra Lazio, Sannio e Campania, garantire un presidio stabile in un’area strategica e avviare quel processo di romanizzazione che avrebbe ridisegnato per sempre l’Italia antica. L’antica città si estendeva su un’area ampia e pianeggiante, perfettamente pianificata secondo l’urbanistica romana, con il cardo maximus (oggi corrispondente alla via Latina che collegava Teanum a Capua) e il decumanus a scandirne la struttura. Gli scavi e le indagini archeologiche, compiuti a più riprese tra la fine del Novecento e gli anni più recenti, hanno portato alla luce una rete di monumenti, edifici pubblici e necropoli che raccontano di una città fiorente, attiva, viva. Ma troppo spesso dimenticata. Tra i reperti più importanti emersi ci sono i tratti di mura urbane in opera quadrata, alcuni risalenti al V secolo a.C., a testimonianza della fase pre romana; il Ponte delle Monache, scavato nel banco tufaceo, che permetteva il passaggio verso l’ager Falernus; alcuni corredi funerari arcaici scoperti nelle necropoli ai margini della città, spesso oggetto di scavi clandestini prima dell’intervento degli archeologi e un santuario urbano con stipe votiva, scoperto di recente e tuttora oggetto di studio. E poi ci sono i grandi edifici pubblici, le strutture che definivano la centralità e l’identità civica di Cales: l’anfiteatro, le terme centrali e quelle settentrionali, e forse, il più affascinante, il teatro romano, ancora oggi ben leggibile nella sua complessa stratificazione. Il teatro di Cales è uno dei più antichi dell’Italia centro meridionale e la sua prima costruzione risale al II secolo a.C., quando la città era già perfettamente inserita nei meccanismi culturali, e politici di Roma. Successivamente, in età augustea, venne ampliato e trasformato con un proscaenium monumentale, gallerie sotterranee, cavea in opus reticulatum e sorretta da arcate con rampe di scale che ne permettevano l’accesso dall’esterno. Oggi, sebbene il teatro sia privo delle sue gradinate originali, la struttura è ancora interamente visibile. Camminare tra le sue arcate vuol dire compiere un viaggio nella romanità, senza mediazioni e filtri turistici. In questo posto non c’è il clamore di Pompei e neanche della patina dei grandi siti archeologici musealizzati. C’è solo la pietra, il tempo e il silenzio. Cales è oggi un patrimonio invisibile, pur trovandosi nel cuore di una regione densamente popolata. L’autostrada che l’attraversa è metafora perfetta della condizione in cui versa. Peraltro, il progresso che passa sopra la memoria e la velocità che ignora la profondità. Eppure, è proprio questa marginalità che rende Cales un caso emblematico con una rovina isolata e un sistema urbano ancora leggibile, esteso, compatto, e straordinariamente intatto nel suo impianto generale. Il problema non è l’assenza del patrimonio, ma l’assenza di attenzione. Cales non compare nei grandi circuiti culturali nazionali. Non è promossa come meta turistica, non ha percorsi integrati né servizi di accoglienza. Eppure avrebbe tutte le carte in regola per diventare un centro di archeologia pubblica, di turismo consapevole e di educazione storica. Purtroppo, Cales non è un’eccezione. Decine di città antiche del Mezzogiorno, da Saepinum a Venosa, da Paestum a Grumentum, vivono la stessa contraddizione nelle straordinarie potenzialità culturali e scarsissimo investimento reale. Manca un piano nazionale di valorizzazione diffusa, manca una regìa che sappia unire tutela, accessibilità e comunicazione. Il rischio è che interi capitoli della nostra storia collettiva vengano dimenticati per sempre, e che a beneficiarne, paradossalmente, siano solo i tombaroli o l’oblio. Parlare di Cales oggi non è solo un esercizio di erudizione. È un atto politico e culturale. È una dichiarazione di responsabilità verso il nostro patrimonio, e verso la narrazione che vogliamo costruire su di esso. In un momento in cui si parla tanto di “valorizzazione”, “borghi storici” e “patrimonio diffuso”, Cales è il banco di prova ideale per vedere se alle parole seguiranno mai i fatti. Rimettere Cales al centro non significa soltanto riscoprire una città romana. Significa ridare voce a una storia di incontri, conquiste, dialoghi e trasformazioni. Significa combattere la marginalità con la conoscenza e l’abbandono con la memoria. Perché in fondo, non è mai solo il passato che salviamo, ma il futuro che costruiamo su di esso.