Da oltre settant’anni il dollaro americano è la valuta di riferimento nei mercati internazionali. Simbolo di potenza economica e di stabilità, è stato per decenni il perno attorno al quale si è articolata la finanza globale. Tuttavia, negli ultimi anni, l’architettura finanziaria internazionale sta mostrando segnali di cambiamento. In un mondo multipolare, dove nuove potenze regionali stanno acquisendo un ruolo crescente, l’affermazione che segue è semplice quanto fondamentale cioè che l’egemonia del dollaro è destinata a durare oppure stiamo entrando in un’epoca di pluralità monetaria. Nonostante la crescente attenzione verso la cosiddetta “dedollarizzazione”, soprattutto nei paesi emergenti e nei membri del gruppo BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, recentemente allargato), il dollaro continua a dominare. È tuttora utilizzato in oltre l’85% delle transazioni finanziarie internazionali e rappresenta circa il 60% delle riserve valutarie mondiali. La sua centralità è evidente in settori strategici come l’energia, dove il “petrodollaro” rimane lo standard per la vendita di petrolio e gas. Tra i principali sfidanti c’è sicuramente la Cina, che spinge da anni per un ruolo più centrale dello yuan (renminbi) negli scambi globali. Tuttavia, il percorso è complesso. Lo yuan non è pienamente convertibile, e il sistema bancario cinese, sottoposto a controlli statali e scarsa trasparenza, genera diffidenza tra gli investitori internazionali. Inoltre, la valuta cinese non è sostenuta da una rete di garanzie e fiducia paragonabile a quella del dollaro. La Cina possiede circa 600 miliardi di dollari in titoli del Tesoro USA, una cifra significativa, ma inferiore al 2% del debito complessivo americano, che oggi supera i 30.000 miliardi. E, fatto meno noto, anche molte banche americane detengono asset in valuta cinese, riducendo il vantaggio competitivo di Pechino. Nel frattempo, i BRICS stanno lavorando a strumenti alternativi come BRICS Pay, un sistema di pagamento che consente transazioni in valute locali, e discutono da tempo la possibilità di una moneta comune per facilitare gli scambi interni, ma, a tutt’oggi, la coesione del blocco è ancora fragile. Le divergenze politiche ed economiche tra membri storici e nuovi (come Arabia Saudita, Egitto o Iran) rendono difficile un’integrazione monetaria coerente e credibile. La strategia dei BRICS si concentra principalmente sulla dedollarizzazione degli scambi bilaterali, cioè sull’utilizzo di valute locali per le importazioni ed esportazioni. È un processo che mira a ridurre l’esposizione ai rischi geopolitici, soprattutto per paesi come Russia o Iran, colpiti da sanzioni occidentali. Tuttavia, si tratta di un fenomeno più difensivo che offensivo, incapace, almeno per ora, di produrre un’alternativa sistemica. Nel contesto attuale, un aspetto spesso trascurato ma fondamentale è la fiducia nei sistemi istituzionali. Il dollaro gode ancora della forza delle sue istituzioni: Federal Reserve, sistema giuridico, trasparenza dei mercati, capacità di assorbire shock economici. Anche in un clima politico polarizzato, gli Stati Uniti mantengono un’enorme capacità attrattiva. Le recenti dinamiche elettorali e l’eventuale ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, nonostante le tensioni globali, non sembrano intaccare la solidità della valuta americana. Certo, l’Occidente si trova oggi a confrontarsi con una crescente sfiducia interna ed esterna, alimentata da una percezione di declino, diseguaglianze economiche e crisi politiche. Ma se l’egemonia americana vacilla in termini di soft power, il dollaro resta — al netto delle fluttuazioni — ancora una roccaforte finanziaria. Gli Stati Uniti possono contare su mercati liquidi, un sistema di controllo regolamentare consolidato e, soprattutto, un’economia ancora in grado di generare crescita, innovazione e occupazione. Il rischio più concreto, al momento, non è tanto la fine del dominio del dollaro, quanto la nascita di un sistema più multipolare, con una varietà di valute forti che coesistono: yuan, euro, rupia, rublo, magari affiancate da una moneta digitale di nuova generazione sostenuta da risorse reali come oro, terre rare o gas. Un’evoluzione che riflette i nuovi equilibri geopolitici. In questo scenario, le criptovalute rappresentano un altro capitolo aperto. Nonostante le oscillazioni di valore e i rischi di frode, alcuni governi iniziano a considerare seriamente le valute digitali centralizzate (CBDC) come strumenti per gestire flussi commerciali esterni in modo più indipendente. Ma affinché possano davvero erodere lo spazio del dollaro, serve qualcosa che oggi manca: un sistema di fiducia globale alternativo. In conclusione, parlare oggi di un mondo senza dollaro è prematuro, tuttavia il tempo dell’unipolarismo finanziario è chiaramente alle spalle. Siamo entrati in un’epoca di transizione silenziosa, dove la centralità americana è ancora viva, ma progressivamente più contendibile. Il futuro sarà scritto non solo nei board delle banche centrali, ma anche nei nuovi forum globali, nei piani industriali congiunti e nelle scelte quotidiane degli operatori economici. E, forse, in un nuovo modo di concepire il denaro stesso.