Negli ultimi anni vi è una parola anzi due ed è entrata nel lessico delle emergenze urbane: morosità incolpevole. Un termine che prova a distinguere chi non paga l’affitto perché non può da chi non paga perché non vuole. Ma in realtà, questa distinzione dice molto di più. È lo specchio fedele di un sistema abitativo fragile, rigido, sempre più disconnesso dalla vita reale delle persone. Dietro ogni “moroso incolpevole” c’è una storia di vulnerabilità improvvisa come la perdita di un impiego, un contratto lavorativo non rinnovato, una malattia, una separazione e la morte del coniuge che portava lo stipendio principale. Eventi che possono capitare a chiunque e basta un cambiamento nella propria condizione economica perché il diritto alla casa cominci a sgretolarsi. Prima saltano due affitti, poi arriva la lettera dell’avvocato ed infine lo sfratto. Tutto in poche settimane. Il passo dalla stabilità al rischio di perdere il tetto sopra la testa è breve, troppo breve. In teoria, esistono strumenti per affrontare questo problema. Il fondo nazionale per la morosità incolpevole consente a chi è in difficoltà di ricevere un contributo per sanare i debiti o trovare una nuova sistemazione. Purtroppo nella pratica, l’accesso a questi aiuti è spesso un percorso ad ostacoli con la solita burocrazia lenta, le informazioni poco chiare, i requisiti stringenti e fondi insufficienti o mai erogati. E così, mentre i moduli restano nei cassetti e le graduatorie languono, le famiglie restano senza casa. Il punto, però, è che la morosità incolpevole non è una deviazione dalla norma. È la spia di qualcosa di molto più profondo. Un sistema del lavoro precario, fatto di contratti a termine e partite IVA deboli. Un mercato immobiliare inaccessibile, dove l’affitto mangia metà del reddito. Un’edilizia pubblica ridotta all’osso, incapace di assorbire la domanda. Una gestione disordinata e miope, dove le emergenze diventano la regola. Nella città eterna, la bella ed affascinante Roma, ne è un esempio emblematico. Gli sfratti continuano a crescere e le liste per le case popolari si allungano, e nel frattempo centinaia di appartamenti pubblici restano chiusi o inutilizzati. Il mercato degli affitti brevi, spinto dal turismo, ha trasformato interi quartieri in residence temporanei, togliendo alloggi ai residenti. E chi prova a resistere, viene lentamente spinto ai margini. In questo scenario, parlare di morosità incolpevole significa guardare solo la punta dell’iceberg. Il problema non è il singolo caso di insolvenza, ma un’intera struttura abitativa che non regge più le condizioni economiche della società attuale. Viviamo in un Paese in cui la casa è ancora considerata un premio, non un diritto. Chi riesce a mantenerla è fortunato. Ma chi la perde, è colpevole fino a prova contraria. Eppure, la casa non è solo un luogo fisico. È la base della vita, della sicurezza, della salute mentale, del lavoro, dello studio, della dignità e dell’identità. Senza una casa, tutto il resto si sgretola. E una società, che accetta di lasciare indietro chi non ce la fa più, a pagare l’affitto, per cause che non dipendono da lui, non è solo ingiusta, ma è miope. Servono politiche abitative strutturali, non misure tampone. Servono case popolari, alloggi temporanei dignitosi, mediazione sociale, affitti calmierati, regole sugli affitti turistici e sostegno preventivo prima che lo sfratto diventi realtà. Perciò occorre anche una nuova cultura dell’abitare: che smetta di trattare la casa come un bene di lusso e torni a riconoscerla per ciò che è davvero: un diritto umano fondamentale. Peraltro, finché continueremo a gestire la morosità come un problema marginale e continueremo a ignorare il disastro più grande di una città che espelle i suoi abitanti più fragili, e una società che protegge il mattone più delle persone unitamente ad uno Stato che assiste in silenzio alla perdita quotidiana di dignità.