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Processo Ubi: le riforme di Moltrasio erano imposte dalla Bce

Processo Ubi: le riforme di Moltrasio erano imposte dalla Bce. In questi giorni hanno parlato le difese del processo Ubi, dove gli ex vertici della banca devono rispondere di accuse pesanti. I magistrati hanno chiesto 82 anni in totale, dai quasi sei per Bazoli, a scendere. Ma tra i primi gradini c’è proprio Moltrasio, manager i cui difensori hanno chiesto la piena assoluzione perché secondo la sua difesa sarebbe un manager che si è dedicato alle riforme. Invece secondo alcuni documenti come quello che alleghiamo in realtà Moltrasio e gli altri ex vertici si sarebbero semplicemente adeguati agli ordini della Banca centrale europea. Nel documento depositato alla Consob, nel 2017 c’è stata una ispezione dell’ente centrale “In tale ambito, è stata richiesta alla Banca la predisposizione di un action plan finalizzato ad indirizzare le raccomandazioni formulate, che dovrà essere inviato all’Autorità di Vigilanza entro il 18 agosto p.v.. Le risultanze e le raccomandazioni rilevate da BCE sono riconducibili a: – assenza di processi e procedure di controllo interno finalizzati a valutare l’aderenza delle operazioni in ambito capitale ai requisiti regolamentari; – possibilità prevista dalle attuali policy del credito adottate dal Gruppo di accettare strumenti di capitale e obbligazioni subordinate emesse da UBI come garanzia di finanziamenti erogati; – presenza di uno specifico articolo nello Statuto, che dia al Gruppo l’opportunità di escutere azioni e obbligazioni poste a garanzia, in caso di inadempimento del debitore; tale fattispecie non è stata considerata aderente alle previsioni del Codice Civile italiano”. E questa è solo una parte del documento, da cui parrebbe chiaro che per il processo Ubi: le riforme di Moltrasio erano imposte dalla Bce.

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La fiducia si compra e costa 57 centesimi

La fiducia si compra e costa 57 centesimi. Il caso dell’acquisto di Ubi da parte di Intesa San Paolo si chiude con la vittoria di Carlo Messina che ha raccolto oltre il 70% delle azioni: Victor Massiah, amministratore delegato di Ubi, ha perso la battaglia e vedrà nascere un gruppo di livello europeo come immaginato da Ca’ de Sass. Una super banca con ambiziosi progetti di crescita e sviluppo. Un risultato raggiunto dopo cinque mesi di aspra battaglia con esposti e denunce alla Consob, alle Procure e al tribunale civile che si sono veramente conclusi quando Intesa ha rilanciato: l’offerta pubblica di scambio inizialmente prevedeva 17 azioni Intesa per ogni 10 di Ubi, ma per convincere i riottosi Messina ha messo sul piatto 57 centesimi ad azione per un totale di 652 milioni di euro. Una cifra imponente che ha dato il via alle adesioni dei grandi azionisti, fino a sfondare la quota stabilita del 66,7% di azioni. La soglia per stabilire il successo dell’operazione è stata raggiunta in anticipo perché l’offerta doveva concludersi il 28 ma Consob ha prolungato di due giorni per rimediare a una comunicazione incompleta che Ubi stava dando agli azionisti. Carlo Messina però può festeggiare perché l’opas è già stata un successo, nei prossimi due giorni bisognerà vedere quanto, ma è già andata in porto. Dunque si può dire che la fiducia si compra e costa 57 centesimi, parafrasando un leit motiv sponsorizzato da Ubi nelle ultime settimane per convincere gli azionisti a non cedere a Ca’ de Sass. E che ora parte una nuova fase per Intesa: l’unione dei due istituti porterà a numeri importanti. L’ammontare degli impieghi sarà di circa 460 miliardi di euro, il risparmio che gli italiani affideranno alla nuova banca supererà il valore di 1,1 trilioni di euro, i ricavi saranno pari a 21 miliardi di euro. Insomma un polo che si posiziona come settimo operatore per generazione di ricavi e terzo per valore di borsa dell’Eurozona. Un asset importante anche per l’Italia nel momento in cui si trova a dover affrontare i danni lasciati dalla quarantena conseguente alla pandemia. Danni ingenti per rimediare ai quali si stanno impegnando tanto gli enti pubblici, Regione Lombardia ad esempio ha stanziato 3 miliardi per gli investimenti, quanto quelli privati.

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Intesa-Ubi: una durissima lettera e un esposto in Consob

Una durissima lettera e un esposto, scritti su mandato del Direttivo dell’“Associazione Azionisti UBI Banca”, “alla luce delle recenti pubbliche e reiterate dichiarazioni di esponenti apicali del Gruppo UBI nonché a seguito delle allarmanti notizie pubblicate dalla stampa nazionale ed internazionale” , quella inviata dal presidente Giorgio Jannone alla Consob, al Cda di UBI Banca e alla società di revisione incaricata Deloitte & Touche S.p.A. Molti degli argomenti erano già stati affrontati nelle domande poste da Jannone nel corso dell’ultima Assemblea dei Soci , domande a cui non era stata data dagli organi statutari della Banca alcuna risposta esaustiva. Ma se letti ora, quei quesiti rivelano un qualcosa di profetico. Si contestano con vigore i contenuti del “Piano Industriale 2022 aggiornato” di UBI che, secondo Jannone, non ha tenuto in debita considerazione le comuni previsioni prospettiche delle principali istituzioni economiche, nazionali (Banca d’Italia, Istat, Confindustria, etc.) e mondiali (tra le altre, Fondo Monetario Internazionale, Unione Europea, agenzie di rating, etc.).Un Piano Industriale che “è stato costruito su pilastri già altamente discutibili prima, e chiaramente irrealizzabili dopo, gli effetti della “Pandemia Covid 2019”. Appare di conseguenza davvero velleitario il mantenimento degli obbiettivi di stabilità economico-patrimoniale e persino di distribuzione di dividendi paventata al mercato, agli azionisti ed agli stakeholders”. Il tutto in contrasto con le previsioni delle principali agenzie: da Moody’s a Fitch. Nella lettera, di cui ci è pervenuta copia, un durissimo atto di accusa : “Il Piano Industriale presenta risultati universalmente ritenuti eccessivamente ottimistici, tra l’altro nell’ambito di un contesto delicatissimo, in cui gli azionisti sono chiamati a scegliere, anche sulla base delle informazioni da Voi diffuse, se accettare o meno le condizioni poste dall’OPS proposta da Intesa San Paolo”. Nella missiva si chiede poi per quali ragioni tecnico-contabili le riserve di valore, definite dal management di UBI Banca “tesori nascosti”, sono magicamente comparse nell’aggiornamento al Piano Industriale e non nel Piano Industriale originario o nelle poste dei bilanci di esercizio precedentemente approvati. E ancora se è corretto dichiarare pubblicamente agli azionisti che è in itinere una proposta di fusione/aggregazione entro fine anno (mancano 5 mesi), quando l’Autorità Garante della Concorrenza del Mercato, nel provvedimento del 16 luglio u.s. con il quale ha autorizzato con condizioni l’OPS (oggi OPAS) di ISP su UBI, ha rilevato che “Nel corso dell’istruttoria UBI, sostenuta sul punto da Unicredit, ha affermato di essere l’unico possibile soggetto aggregatore di istituti bancari, alternativo ad ISP e Unicredit e, per conseguenza, di essere l’unico operatore in grado di raggiungere dimensioni paragonabili a quelle dei principali player italiani (ISP e Unicredit) e di competere alla pari con loro. … Al riguardo, occorre rilevare come agli atti del fascicolo istruttorio, e in particolare dalla documentazione fornita dalle Parti, non sono emerse evidenze, né certe né univoche, in merito alla reale possibilità di UBI di costituire un terzo polo bancario – diventando il soggetto aggregatore di medie realtà bancarie italiane quali ad es. BPER, MPS, BPM – in quanto gli elementi controfattuali forniti dalle Parti si limitano a mere ipotesi di lavoro relative a fasi molto preliminari di progetti di aggregazione di UBI con altri operatori, non condivise o presentate né a livello di CdA, né di assemblea.” Jannone poi ricorda che : “La sottovalutazione dei rischi da parte della governance di UBI ha portato infatti l’agenzia Fitch a declassare il debito di UBI fino a portarlo sotto la soglia di not investment grade (c.d. junk/spazzatura) proprio a causa della qualità degli attivi di UBI”. La lettera dell’Associazione Azionisti UBI riprende poi un vecchio cavallo di battaglia, il caso ”Ubi Banca International” e “Parvus”. A proposito si legge che “nelle ultime settimane numerosi quotidiani nazionali hanno riferito notizie in merito alla pendenza di indagini penali che coinvolgono Parvus Asset Management Europe Ltd in qualità di azionista di UBI Banca S.p.A. e, più in particolare, a rapporti che sarebbero intercorsi tra Parvus e Ubi Trustee S.A., ancora oggi appartenente al Gruppo UBI (fino al 02 Novembre 2017 Ubi Trustee S.A. era controllata da Ubi International S.A.). Nel corso dell’Assemblea dei Soci di UBI dell’8 Aprile 2020 avevo chiesto espressamente se UBI Banca o le sue controllate intrattenessero rapporti di natura patrimoniale economico finanziari o creditizi di qualsiasi tipologia con il fondo Parvus Asset Management Europe LTD o con il titolare del medesimo fondo, Edoardo Mercadante, che risulta essere referente ufficiale dell’8,6% del capitale di UBI Banca a titolo di gestione non discrezionale. La speranza che venga fatta luce sulle ombre che aleggiano sulla nostra Banca riguarda altresì da anni Ubi International S.A. e Ubi Trustee S.A. , anche in merito ad un presunto coinvolgimentonella cartolarizzazione di crediti collegati indirettamente alle organizzazioni criminali della ‘ndrangheta. A riguardo, tra i moltissimi articoli di stampa, In data 08.07.2020 “Milano Finanza”, riprendendo l’autorevolissimo “Financial Times”, ha pubblicato una inquietante inchiesta dal titolo: “Quei bond in odore di ‘ndrangheta e la strada che porta a Bergamo”“un’operazione complessa di cartolarizzazione con sottostanti fatture emesse in alcuni casi da società in mano alla malavita calabrese è finita nei portafogli di investitori finali, secondo il ft. il veicolo estero che ha effettuato l’operazione è legato a Ubi”. Sul punto siamo in attesa di una nota di chiarimento da parte degli Apicali della Banca del Gruppo UBI interessata dall’inchiesta del Financial Time, rimandando ai nostri precedenti atti inerenti la repentina ed ingiustificata cessione della controllata UBI International SA (cessione immediatamente successiva ai nostri esposti) ed al documentato coinvolgimento di UBI Trustee nello scandalo “Panama Papers” di Panama”. Ma la parte forse più aggressiva della missiva di Jannone la riserva alla netta opposizione della governance di UBI all’OPS di Intesa San Paolo. Si legge : “In merito alle spese sostenute per la campagna pubblicitaria ‘LA FIDUCIA NON SI COMPRA’ stigmatizziamo la scelta del management di destinare ingenti somme di denaro della nostra Banca per opporsi, senza alcuna preventiva autorizzazione dell’Assemblea dei Soci, all’OPS di Intesa Sanpaolo.”. Gli Amministratori pro tempore della Banca hanno il dovere di garantire una sana e prudente gestione e, soprattutto, di astenersi da ogni azione

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Rinviata al 12 la soluzione del mistero del processo UBI

Rinviata al 12 la soluzione del mistero del processo UBI. Nell’udienza del 4 maggio del procedimento che vede alla sbarra 30 imputati, tra cui nomi pesanti del sistema bancario italiano come Giovanni Bazoli, non si è ancora risolta la questione: secondo l’accusa sostenuta dal pubblico ministero Fabio Pelosi nell’assemblea dei soci del 2013 ci sarebbe stato una fraudolenta alterazione di maggioranza realizzata attraverso molteplici differenti condotte che portarono alla vittoria della lista Moltrasio. Per dimostrare l’effettiva alterazione della maggioranza occorrerebbe “vincere la prova di resistenza”. Il P.M. dovrebbe quindi dimostrare “al di là di ogni ragionevole dubbio” che, senza le numerose condotte contestate agli imputati, sarebbe certamente risultata vincitrice la lista che si è classificata seconda. L’impresa si preannuncia titanica: il P.M. dovrebbe dimostrare che almeno 2.600 voti espressi mediante delega in favore della lista risultata vincitrice non sono stati validamente espressi. Nel corso delle indagini la Guardia di Finanza ha sentito oltre 400 persone e ha contato più di 1.100 voti non validi (perché frutto di deleghe “in bianco”, vietate per evitare il fenomeno di rastrellamento di voti per delega). Il P.M. ha chiesto al Tribunale di acquisire la prova indispensabile per dimostrare la tesi d’accusa: un file Excel contenente i nomi dei 14.000 soci di UBI che si sono presentati all’assemblea del 2013 e il codice univoco assegnato “at random” ad ogni votante. L’abbinamento del nominativo di ogni singolo socio ad un codice numerico è indispensabile per poter ricostruire le determinazioni di voto. Le schede di voto utilizzate da UBI riportavano infatti il codice assegnato ad ogni socio, così permettendo di “tracciare il voto”, cioè di sapere chi ha votato per chi. Ovviamente per consentire questo abbinamento socio – voto è necessario avere a disposizione i due elementi indispensabili: le schede di voto e il database riversato su un DVD che contiene gli abbinamenti tra i nomi dei soci e il codice assegnato. Lo scontro tra avvocati e PM che sta infuocando l’arena processuale si protrae dal 15 maggio e ha ad oggetto l’asserito (dalle difese) omesso deposito del database e delle schede di voto al momento della chiusura delle indagini preliminari, nel novembre 2016. Ma facciamo un passo indietro. Tutto il procedimento è incentrato sull’assemblea dei soci Ubi del 2013, l’ultima svoltasi con il vecchio assetto da banca popolare per Ubi: in sostanza, il gruppo dirigente della banca veniva eletto dall’assemblea dei soci. Ogni possessore di almeno 250 azioni di Ubi aveva diritto a esprimere un voto. E ciascuno poteva avere fino a tre deleghe di altri soci. L’impianto accusatorio sostiene che ci furono persone che rastrellarono deleghe in bianco e si presentarono a quell’assemblea votando per persone a loro sconosciute, dunque in assenza di qualsiasi indicazione di voto. Dal processo stanno emergendo una ad una le molteplici condotte ipotizzate dal P.M. Un esempio: gli apicali del gruppo avevano il divieto di portare deleghe come previsto dal Codice Civile. Eppure alcuni si sono presentati portando deleghe, in alcuni casi anche con decine di deleghe grazie a un meccanismo come questo: il socio si presentava sia come persona fisica, sia come rappresentante di società che possedevano un numero sufficiente di azioni per esprimere un voto. In questo modo sarebbe stato possibile moltiplicare anche il numero delle deleghe perché una singola persona rappresentava sé e le aziende. Il 4 maggio sono stati sentiti anche diversi dipendenti Confiab, Consorzio Fidi fra Imprese Artigiane della Provincia di Bergamo, che avrebbero fatto parte di un altro meccanismo volto a truccare il voto: la cassa del consorzio sarebbe stata usata per consegnare 3200 euro ad ogni dipendente “operativo”. Con questi soldi avevano ricevuto l’incarico di comprare 4 pacchetti da 250 azioni di Ubi, in parte per sé in parte per parenti e amici. Il mistero delle prove al processo Ubi resisterà almeno fino al 12 giugno. Nell’udienza del 4 maggio del procedimento che vede alla sbarra 30 imputati, tra cui nomi pesanti del sistema bancario italiano come Giovanni Bazoli, non si è ancora risolta la questione: secondo l’accusa sostenuta dal pubblico ministero Fabio Pelosi nell’assemblea dei soci del 2013 ci sarebbe stato una fraudolenta alterazione di maggioranza che portò alla vittoria della lista Moltrasio, ma la prova che potrebbe dimostrare la tesi d’accusa ancora non è stata prodotta. Nell’ultima udienza del procedimento i difensori degli imputati, gli avvocati Fabio De Matteis (dello studio dell’ex ministro Severino) e Dinacci, hanno lamentato la mancanza del DVD contenente il file con i nomi dei 14mila soci che avevano partecipato all’assemblea. Quel database dice chi c’era e quante deleghe aveva portato. Per sapere se il Tribunale riterrà utilizzabile la prova chiesta dal P.M. bisognerà aspettare il 12 giugno.

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