La scissione della sciabola di Livorno Il 1921 per come fu veramente 1921, cent’anni fa il Milite ignoto. Cento anni della Moto Guzzi e della istriana Valli. Cent’anni di Fucini morto e di Sciascia vivo. Cent’anni del Gran Premio d’Italia. Cento anni del Vittoriale e dei 6 personaggi in cerca d’autore. Cent’anni del cerotto e di Chanel. Cent’anni del massacro razzista di Tulsa. Ed anche cent’anni fa si scriveva dei secolo precedente come fece Rovani nei suoi Cento anni, storia di un maggiordomo di famiglia milanese, Galantino, tra 1750 e 1850. In quei cento anni precedenti, i bottoni madreperlati gallonati sulla livrea non cambiarono praticamente mai, né al ritorno delle bianche parrucche cotonate dei codini reazionari, né con l’avvento dei ciuffi neri romantici e degli angolati baffi. L’Europa allargata era (quasi) tutto il mondo ma soffriva dell’epilessia della perdita dell’assolutismo, cui non sapeva trovare un sostituto. La tarantola francese – repubbliche, impero, regni, repubblica, impero e repubbliche – ha trovato pace solo nel generale imperatore, autocrate democratico. Ruolo non facile ad osservare il rosso fuoco delle glabre guance schiaffeggiate di Macron. Accartocciata in lotte dinastiche sanguinarie tra i più anticlericali e anticlericali d’Europa, cioè del mondo, la Spagna si è acquietata nell’assolutismo militare dei reggimenti musulmani che imposero la croce. Ancora chiuso in quell’armatura, l’istinto donchisciottesco la guida a scoperchiare tombe ed a dividere l’opera del Cid. Le Germanie, divise, riunite, divise in tantissimi pezzi, riunite, divise e ora demurate più che riunite, vennero unificate dalla terra più lontana, più brumosa, quasi non tedesca. Proprio come l’ultima pedemontana di contadini soldati usi ubbidir al loro Corsaro Nero di Guasgogna (no, di Savoia) riunì i dialettici e litigiosi italiani. Ci riuscì proprio da non italiana. L’Oriente lontano, la barbarie, i nemici della croce e del diritto erano proprio lì, sull’uscio di casa. Un passo fuori Venezia e ribolliva tutta la schiuma del Sultano erede del bizantino (e tuttora la bellezza di San Marco sta in quella schiuma depredata). Due passi fuori Vienna ed ecco il deserto dei tartari, l’attesa dei mongoli, delle Russie, del Gobi, delle Persie, intrecciate con le fantasticherie cinesi. Pechinesi sembravano i polacchi dalle lunghe scimitarre. Solo l’impalatore mostruoso Drakul poteva fermare l’Ottomano. Eppure tutti i popoli di quelle terre balcaniche, caucasiche, carpatiche, curlande erano e sono Europa. L’assolutismo li manteneva nella favola, nel mito e nell’incubo ed insieme li voleva gestire nella legge e nei comuni reggimenti dei baffi unti di sugo. La fine delle teste coronate aprì il vaso di Pandora e mille tesi, filosofie, credi si riproposero come nuove guerre di religione, vecchie jacqueries sociali. Gli intellettuali che si erano sforzati durante l’assolutismo di dare un senso religioso allo Stato laico, che avevano dimostrato che Dio esisteva razionalmente e che il mondo non poteva essere migliore, possibilmente, si dedicarono alla ricerca della gioia triste dell’inutilità della vita. In un caso era disdicevole quella altrui, nell’altro la propria. Certo, si sarebbe potuto buttare via tutta la storia precedente e fare a chi spara più veloce; oppure fa più danaro, oppure è formidabile a bracciodiferro. Con la clausola di azzerare la memoria ogni giro. L’Europa, lei, no; non è capace. Malgrado tutto, deve sempre tirarsi dietro una rete pesantissima colma di ori e gusci di noce, che risale agli hittiti ed agli egizi, europei della storia enlarged. Così cent’anni fa c’era il vuoto. Più che esserci qualcosa, c’era la fine del senso delle cose. In una epilettica danza Hitler poteva passare da imbracciare il bracciale rosso della Baviera comunista a quello dei Frei Korps; gli ebrei potevano esporre lapidi sulle scuole israelitiche per i caduti della Grande guerra e marciare con repubblicani per aderire all’associazione combattenti e poi finire nei fasci. Tutti erano convinti che tutti fossero uguali e che solo per caso i boemi combattessero per i tedeschi ed i sudafricani per gli inglesi. Sostenevano che la Bessarabia fosse rumena, no russa. Che le frontiere della Francia fossero quelle della Libertà; che i polacchi, appena usciti dal giogo, volessero Wilno, Mosca e Kiev. Che l’Ungheria, senza sbocco al mare, si sarebbe affidata all’ex Ammiraglio austroungarico, così, per nostalgia. Il turco con un secolo e mezzo di ritardo si era fatto illuminista, beveva, bestemmiava e ammazzava meglio di prima greci ed armeni. Il tempo era (ed è) a multistrato, lo zar lo fucilarono due secoli e mezzo ed un secolo e venti anni in ritardo rispetto ai decapitati Carlo e Luigi. Il processo Kaiser lo processarono perché tutti i popoli avevano gli stessi diritti; o no? Allora, si diceva che il più forte, quello che spara più veloce, avrebbe rimesso i debiti (no, i crediti) e governato per tutti; invece si ritirò perché non era ancora il più forte. Il deserto dei tartari, lungi dall’essere controllato, avanzava fino alle colonne d’Ercole. Tutti ne parlavano con acume e analisi. Il cancro europeo veniva studiato, a sangue freddo, nel vivo del carcinoma tra Repubblica, Monarchia, Direttorio, Ottimato, Signoria, Dominium, Città Stato, Principato Vescovado, Città Libera, Repubblica Sovietica, Repubblica Socialista. Ci voleva un nuovo Dio in terra. In Vaticano dicevano che la stella a cinque punte moscovita fosse Satana. Anch’esso, però di natura divina. E comunque anche gli dei falliscono. Infatti alla ribalta arrivarono i Masanielli, gli accatoni re assoluti, che come cantava Bowie, abbronzati pallidissimi, sapevano suonare la chitarra. Tutto è bene quel che finisce bene. Le Europe (che restano quasi tutto il mondo) sono rimaste epilettiche, ma incapaci di far male a sé e agli altri. Doberman senza unghie, leoni senza zanne, animali anziani che si indignano per la cura della cucciolata, la fornitura dei pannoloni ed il passaggio insolito di cloud. Non era così diverso lo spirito dei rappresentanti di 4367 sezioni socialiste riuniti al congresso del gennaio 1921 a Livorno. Avrebbe dovuto tenersi a Firenze ma i convenuti temevano le bravate della fascista Disperata del nobile spiantato Perrone Compagni. Nella città labronica il prefetto Gasperini garantiva la presenza di 3500 uomini tra soldati, guardie regie, carabinieri ed autoblindati. Il ferroviere Barontini, un altro migliaio della volontaria