In una fase storica segnata da crisi internazionali, tensioni geopolitiche e profonde trasformazioni economiche, l’Europa si trova davanti a scelte cruciali. Dopo la pandemia, la guerra in Ucraina ha imposto un’accelerazione del dibattito sulla difesa comune. In parallelo, il Green Deal europeo ha preso una direzione che, per quanto fondata su obiettivi condivisibili, ha mostrato più di una fragilità sul piano della sostenibilità economica e sociale. L’aumento della spesa militare, soprattutto in Paesi come l’Italia, viene presentato come inevitabile: bisogna rispettare gli impegni NATO, rafforzare la deterrenza e prepararsi a un futuro incerto. Ma se questo sforzo avviene a discapito dei servizi pubblici, delle politiche sociali e delle priorità interne, la scelta rischia di diventare insostenibile. Il rischio concreto è che a pagare il prezzo siano proprio le fasce più fragili della popolazione, quelle che già oggi fanno fatica a ottenere cure mediche adeguate, un’istruzione di qualità, o una pensione dignitosa. Serve una riflessione seria. Cosa stiamo sacrificando in nome della sicurezza? E, soprattutto, chi decide quali priorità devono venire prima? Non può essere accettabile che una trasformazione tanto profonda dell’identità europea, da continente sociale a continente militarizzato, avvenga senza un reale dibattito democratico. Una difesa comune può essere legittima e utile, ma non può trasformarsi in una nuova economia di guerra permanente, dove il welfare viene ridotto a margine ed ogni dissenso etichettato come anti-occidentale. Allo stesso modo, è ormai evidente che il Green Deal, così come è stato concepito, ha mostrato forti limiti. In molti casi ha finito per penalizzare le imprese, soprattutto le piccole e medie, e, peraltro, ha aumentato la pressione, su agricoltori e famiglie, introducendo vincoli scollegati dalla realtà produttiva del continente. Non si tratta di negare l’urgenza ambientale, ma di riconoscere che alcune scelte sono state ideologiche, burocratiche e poco pragmatiche. La transizione ecologica non può essere guidata da slogan e né da obiettivi imposti senza strumenti adeguati. Deve essere sostenibile non solo per l’ambiente, ma anche per l’economia e per il tessuto sociale europeo. Un’Europa credibile, forte e coesa deve sapere tenere insieme sicurezza, crescita, e diritti. Non può chiedere sacrifici infiniti ai cittadini, mentre moltiplica le spese in settori ad alto impatto strategico, ma basso ritorno sociale: eliminiamo l’IRPEF ai pensionati! Non può affidare il proprio futuro a lobby industriali, siano esse quelle delle armi o delle tecnologie verdi, perdendo di vista la missione originaria dell’integrazione europea della pace, del benessere diffuso e del progresso condiviso. Oggi più che mai, occorre il buon senso. Acclamare una politica europea capace di guardare oltre l’emergenza, di ascoltare territori e cittadini, e di rimettere al centro ciò che davvero conta: gli investimenti intelligenti, le riforme concrete e la vera sostenibilità. Né militarismo e né ambientalismo ideologico possono sostituire il dovere di costruire una società equilibrata. L’Europa deve dimostrare di saper difendere i propri valori senza smarrire la propria anima.
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