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Gli ordini professionali: mantenerli o abolirli?

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In un momento storico in cui il concetto di libertà individuale è sempre più centrale nel dibattito pubblico, si torna a riflettere sulla natura e sulla funzione degli ordini professionali. Lo si fa con maggiore insistenza oggi, quando la Società evolve rapidamente e le regole che la governano mostrano, talvolta, segni evidenti di scollamento rispetto alla realtà. In questo contesto, risuona con forza l’affermazione di Luigi Einaudi, secondo cui “…gli Ordini possono anche rimanere per quelli che intendono iscriversi, l’importante è che venga eliminata l’obbligatorietà della iscrizione ai fini dell’esercizio professionale…”. Una visione liberale e lungimirante che richiama direttamente i principi sanciti dall’articolo 18 della Costituzione italiana, là dove si afferma il diritto di ogni cittadino di associarsi liberamente, senza autorizzazioni, per fini che non siano vietati ai singoli dalla legge. Il nodo centrale della questione non è l’esistenza in sé degli Ordini, ma la loro natura obbligatoria. È lecito chiedersi se oggi, nel 2025, essi rispondano ancora alla funzione per cui furono istituiti o se siano divenuti più strumenti di controllo che di garanzia per la collettività. Le professioni ordinistiche, dagli ingegneri agli architetti, dai commercialisti ai geometri, richiedono certamente competenze tecniche, deontologiche e culturali elevate, ma l’appartenenza ad un albo non è garanzia automatica di queste qualità. L’errore più comune è quello di sovrapporre il concetto di “iscritto” a quello di “professionista competente”, trascurando il fatto che la professionalità deriva piuttosto da percorsi di studio, aggiornamento continuo, esperienza sul campo e qualità personale. L’adesione obbligatoria a un Ordine appare oggi, per molti, come una formalità burocratica che poco ha a che fare con il merito o con la preparazione effettiva. Il meccanismo dell’esame di Stato, per esempio, sembra talvolta più orientato a ribadire l’appartenenza a un sistema chiuso che a certificare realmente le competenze acquisite. Per chi ha completato un corso di laurea specialistico, svolto tirocini ed affrontato esperienze professionali complesse, è spesso già ampiamente in grado di operare con efficacia, indipendentemente da un passaggio formale imposto da logiche che appaiono sempre meno attuali. Peraltro, va ricordato, che gli ordini professionali sono nati durante il periodo fascista, in un contesto ideologico e politico in cui i concetti di ordine e controllo erano centrali. La loro struttura, oggi, rischia di mantenere una connotazione di chiusura corporativa, più attenta alla protezione del perimetro interno che all’effettivo servizio alla collettività. La riflessione, peraltro, non dovrebbe concentrarsi su una loro abolizione netta, posizione estrema e spesso improduttiva, ma, piuttosto, sull’opportunità di rendere facoltativa l’iscrizione all’albo. In questo modo, il professionista sarebbe libero di decidere se aderire ad un sistema di rappresentanza e autoregolamentazione, senza che tale scelta incida sul suo diritto all’esercizio della professione. Un passo in questa direzione segnerebbe una transizione culturale importante come l’abbandono di un approccio autoritativo in favore di una logica basata sulla fiducia, sulla responsabilità individuale e sul valore riconosciuto dalle competenze reali. Sostenere la libertà di scelta non significa negare il ruolo che un Ordine può giocare in termini di tutela, aggiornamento o rappresentanza, ma rimettere al centro la figura del professionista come soggetto autonomo, valutato sulla base dei risultati, dell’etica, della trasparenza e non dell’appartenenza. È forse giunto il momento di domandarsi se l’obbligatorietà dell’iscrizione, piuttosto che essere una garanzia per i cittadini, non sia in realtà un limite per l’evoluzione di professioni che, in molti casi, hanno ormai raggiunto una maturità tale da non dover essere più validate da un sigillo corporativo. Una società moderna non può prescindere dal merito e dalla libertà e, peraltro, questi due valori che, nel contesto professionale, dovrebbero tornare a dialogare senza mediazioni forzate.

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