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Femminicidio e diritto penale: la Legge non può diventare un palcoscenico ideologico.

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Negli ultimi mesi, sospinti da gravi e dolorosi fatti di cronaca, è tornata alla ribalta una proposta tanto emotivamente potente quanto giuridicamente controversa: l’introduzione nel codice penale italiano di un reato autonomo di “femminicidio”. Un’iniziativa che, pur sorretta da intenzioni encomiabili, rischia di snaturare i fondamenti stessi del nostro sistema penale e violare, paradossalmente, proprio quel principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione. Nel nostro ordinamento, la vita di ogni persona, donna o uomo, ha pari valore giuridico. E il diritto penale, in quanto extrema ratio, non può e non deve gerarchizzare le vittime in base all’identità, al genere o alla condizione sociale. La proposta di un reato ad hoc per l’omicidio di una donna “in quanto donna” equivarrebbe a disegnare un diritto penale dell’identità, fondato non più sulla condotta dell’autore, ma sulla “categoria” della vittima. Un passo delicato, che apre scenari inquietanti: la fine dell’universalismo della legge penale. Non è certo negabile che esista una specificità nella violenza di genere. Ma è proprio per questo che il legislatore è già intervenuto, e non in modo timido. Gli articoli 61 n. 1 e 11-quinquies c.p. puniscono con l’aggravante l’omicidio motivato da odio sessista o discriminazione; l’art. 577 c.p. prevede l’ergastolo per l’omicidio in ambito familiare o affettivo; il Codice Rosso, comunemente noto come la Legge del 19 luglio del 2019, n. 69, che introduce misure urgenti per la tutela delle vittime di violenza domestica e di genere,  potenziando la tutela preventiva delle vittime, rafforzando le misure cautelari ed accelerando procedimenti penali. Creare oggi una nuova fattispecie autonoma di reato rischia di risultare propagandistico, pleonastico e perfino incostituzionale. La LeggePenale non può diventare un strumento simbolico o un messaggio politico, bensì deve rimanere ancorata a quei principi che fanno del nostro ordinamento uno Stato di diritto: presunzione di innocenza, legalità, tipicità e proporzionalità. Per riaffermare la dignità femminile non si conquista attraverso scorciatoie normative, ma costruendo un sistema culturale e giuridico che funzioni per tutti. Il rischio è quello di creare una forma inversa e speculare di discriminazione, un cortocircuito che ci allontana dall’autentica parità. La violenza maschile contro le donne è una piaga sociale. Peraltro, la sua risposta deve essere complessiva e sistemica: formazione degli operatori, centri antiviolenza, prevenzione, educazione, supporto economico e psicologico, e certezza della pena. Non serve una nuova etichetta penale, serve più efficienza nella giustizia, più protezione concreta e più consapevolezza collettiva. In definitiva, la Legge deve restare uguale per tutti, anche e, soprattutto, quando l’indignazione sociale chiede il contrario. Perché il diritto penale non è mai lo strumento giusto per colmare le mancanze culturali: il rischio è di trasformare il dolore in populismo giudiziario, e la giustizia in un’ingiustizia di segno opposto.

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Economia e Diritto · Roma - Politica

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