Nel pieno di un conflitto che continua a consumare vite e speranze nella Striscia di Gaza, l’Italia sta scrivendo una pagina silenziosa ma potente di diplomazia umanitaria. Con la quattordicesima evacuazione medica dal 2024, quella avvenuta l’11 agosto 2025, il nostro Paese ha messo in atto quella che il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha definito “la più grande operazione umanitaria dall’inizio delle ostilità”. Trentaquattro bambini palestinesi, malati o feriti, sono stati evacuati assieme alle loro famiglie per un totale di 118 persone. Il loro arrivo in Italia non è solo un gesto di compassione: è un atto concreto di responsabilità internazionale. La missione, portata a termine con il supporto di tre aerei C-130 dell’Aeronautica Militare, è stata resa possibile grazie a un sistema articolato che coinvolge la Farnesina, la Protezione Civile, il Ministero della Salute, il Viminale e la Difesa, in collaborazione con il Meccanismo europeo di protezione civile, l’Organizzazione mondiale della sanità e le ambasciate italiane al Cairo e a Tel Aviv. È proprio questa sinergia istituzionale a rendere il gesto italiano qualcosa di più di un’operazione straordinaria: si tratta di una vera politica di intervento, ormai strutturata, che restituisce dignità ad una delle parole più abusate del nostro tempo: umanità. Dall’inizio dell’anno, oltre 180 bambini e circa 400 familiari sono stati accolti in Italia. In totale, più di 900 cittadini palestinesi hanno trovato rifugio e cure nel nostro Paese. Ognuna di queste persone rappresenta una storia di sopravvivenza, spesso segnata da lutti irreparabili. Come nel caso della dottoressa Alaa al-Najjar, che ha perso nove dei suoi dieci figli in un bombardamento e che è arrivata in Italia con il suo unico figlio sopravvissuto, gravemente ferito. Storie strazianti che però non vengono strumentalizzate: vengono curate. In un panorama internazionale segnato da slogan, schieramenti e recriminazioni, l’approccio italiano è controcorrente. Non ci sono conferenze stampa enfatiche, non c’è un lessico muscolare, c’è l’efficacia di un sistema istituzionale che agisce. Ed agisce ripetutamente e non in modo episodico. La costanza delle evacuazioni è ciò che le rende credibili, in febbraio erano stati evacuati 14 piccoli pazienti oncologici, in marzo, altri 18 bambini e 35 familiari, ed ora, in agosto, 31 bambini malati insieme alle loro famiglie, quasi 120 persone in tutto, il numero più alto finora. In totale, oltre una dozzina di missioni in meno di otto mesi. Queste evacuazioni, oltre al loro significato umanitario, hanno un valore strategico poiché costruiscono un capitale diplomatico alternativo, fondato sulla credibilità, sulla fiducia e sulla prossimità reale. In un’area dove ogni azione può essere letta come allineamento geopolitico, l’Italia riesce a mantenere un profilo indipendente, che parla con tutte le parti, ma agisce in nome dei più deboli. Tuttavia, non è poco. È l’essenza della diplomazia che preferisce costruire ponti piuttosto che rafforzare muri. Un altro aspetto cruciale riguarda la gestione interna di queste missioni. I bambini vengono distribuiti in diversi ospedali pubblici italiani, da Roma a Milano, da Napoli a Torino, dimostrando che il nostro sistema sanitario, pur tra mille difficoltà, può ancora essere pilastro di accoglienza e professionalità. Il coordinamento tra Protezione Civile e Regione è stato spesso rapido e efficiente, riducendo i tempi d’attesa e garantendo interventi tempestivi. L’evacuazione di bambini non è una soluzione strutturale al dramma di Gaza, né vuole esserlo. Peraltro, rappresenta una risposta immediata e concreta ad un’urgenza che non può aspettare i tempi lenti della diplomazia classica. Curare un bambino non risolve la crisi israelo-palestinese, ma ignorarlo, o lasciarlo morire senza possibilità di cura, ci renderebbe complici. C’è una lezione che questa serie di operazioni ci insegna che la pace comincia anche da gesti piccoli, ma coerenti, da una politica che, invece di predicare, cura. Che non parla solo ai potenti, ma si rivolge direttamente a chi ha bisogno. È un’Italia che, senza clamore, guarda alla pace non come sogno, ma come processo da costruire, persona dopo persona. Il nostro Paese, che troppo spesso fatica a trovare un’identità nella scena internazionale, in queste settimane si è dimostrato capace di offrire una via diversa, quella dell’impegno silenzioso, continuo e solidale. Un modo concreto di stare nel mondo che non ha bisogno di slogan, ma solo di fatti.
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