Nel cuore dell’Europa, in un paese che si è sempre distinto per il suo spirito umanitario e l’accoglienza verso chi fugge dalla guerra, si sta consumando una vicenda che scuote la coscienza e pone interrogativi profondi sul significato reale di protezione, solidarietà e dignità umana. È la storia dei signori Anatolii Martynenko e Maryna Tymoshchuk, due cittadini ucraini fuggiti separatamente dall’orrore della guerra per trovare in Italia non solo salvezza ma anche una nuova possibilità di vita. Entrambi sono arrivati con i propri figli, segnati da lutti e gravi patologie, e nel difficile contesto dell’esilio hanno costruito lentamente un nuovo nucleo familiare, fondato sull’amore, la cura reciproca e la resilienza. Una speranza che oggi rischia di essere frantumata da un sistema che, pur nella sua missione di tutela, si è trasformato in fonte di ulteriori traumi. Anatolii Martynenko ha perso la moglie e il figlio venticinquenne durante i bombardamenti su Kiev. La figlia Kateryna, ferita alla testa da una scheggia, è sopravvissuta per miracolo. Padre e figlia sono arrivati in Italia con un corridoio umanitario, e Kateryna è stata sottoposta d’urgenza a un delicatissimo intervento chirurgico. Anatolii non si è mai allontanato da lei, vegliandola ogni giorno con la dedizione silenziosa di un padre che ha perso tutto ma non l’amore per ciò che gli resta. Maryna Tymoshchuk è arrivata a Roma con la figlia Nadiia, malata oncologica, costretta su una sedia a rotelle, ma con una mente lucida e pienamente cosciente. In seguito, Maryna è riuscita a farsi raggiungere anche dagli altri due figli minori, Maksym e Olesia. Questi due percorsi di dolore e resistenza si sono incrociati nei corridoi dell’ospedale, dove Anatolii e Maryna si sono conosciuti. Da un legame inizialmente fondato sulla solidarietà reciproca e sul sostegno pratico, è nata una relazione affettiva stabile. Una relazione che ha portato, nell’aprile 2024, alla nascita della piccola Maria, una nuova vita nata da due famiglie spezzate che hanno cercato di ricostruirsi. Lo Stato italiano ha assegnato loro ospitalità in una struttura alberghiera, l’Hotel Mercure, un quattro stelle che, tuttavia, si è rivelato nel tempo totalmente inadatto a ospitare un nucleo familiare fragile e numeroso. Tre camere, non adiacenti, poste a circa 60-100 metri l’una dall’altra, hanno spezzato l’unità quotidiana della famiglia. L’albergo non consente agli ospiti di pulire né provvede in autonomia alla pulizia, rendendo l’ambiente insalubre. I rifiuti vengono raccolti solo ogni quattro giorni. Non c’è cucina, né frigorifero. I bambini vivono stipati in stanze anguste, in cui si accumulano vestiti, oggetti salvati dalla guerra, giochi e presidi sanitari. Il bagno, unico spazio disponibile, diventa contemporaneamente luogo per l’igiene personale e per il lavaggio dei cibi. Le richieste di sistemazioni più adeguate sono state ignorate. E ciò che è ancora più paradossale è che proprio queste condizioni, imposte dal sistema di accoglienza, sono poi state utilizzate per accusare i genitori di negligenza. Le difficoltà quotidiane si sono sommate a episodi gravi e sottovalutati. Il figlio Maksym ha subito atti di bullismo e violenza verbale a scuola da parte di un’insegnante, evento che ha richiesto un intervento ospedaliero. Anche in questo caso, le segnalazioni alla rete dei Servizi Sociali sono rimaste senza risposta. E mentre i genitori cercavano, tra mille ostacoli, di garantire protezione e stabilità ai figli, si è insinuata la minaccia più grande quello dell’allontanamento forzato dei minori. L’8 luglio 2025 la bambina di un anno, Maria, è stata prelevata con la forza e portata in una casa famiglia. I genitori riferiscono di essere stati rinchiusi a chiave nel seminterrato della struttura, i documenti sottratti, il figlio sedicenne Maksym spinto a terra e ferito durante l’intervento. Nessuno si è accertato se la bambina fosse ancora allattata, né è stato fornito un mediatore linguistico. L’allontanamento è avvenuto in un clima di violenza e sgomento, e registrate di nascosto a tutela della propria integrità. Ad oggi, ai genitori non è stato consentito di vedere la piccola. La separazione forzata da entrambi i genitori, dai fratellini e da Kateryna, che le fa da sorella maggiore, con dei gattini adottati, e da tutto ciò che conosce e riconosce, rappresentano per Maria una frattura psicologica che nessun provvedimento amministrativo può giustificare. Le conseguenze, come sottolineano i medici, potrebbero essere profonde e durature. La stessa Kateryna, già colpita da un lutto devastante e da un intervento chirurgico al cranio, vive quotidianamente con forti cefalee e crisi di ansia. Il solo elemento che le dà conforto è la presenza del padre, dell’affetto ritrovato nella nuova famiglia, della sicurezza che solo l’ambiente familiare può garantire. Separarla dal padre significherebbe vanificare ogni progresso medico ed emotivo raggiunto. Le accuse mosse ai genitori, mancanza di progettualità, trascuratezza e disordine, appaiono non solo infondate, ma distorte. Anatolii frequenta un corso di cucina e insieme a Maryna sta seguendo lezioni di lingua italiana online. Cercano lavoro, ma è impossibile pensare a un’integrazione senza una casa, senza stabilità e, peraltro, senza nemmeno un frigorifero. Il disordine contestato è la naturale conseguenza di una convivenza forzata in stanze non adatte, sovraffollate e prive di spazi vitali. I sopralluoghi avvenuti in momenti critici, mentre la famiglia era fuori per motivi burocratici, non possono diventare prove d’accusa, e, soprattutto, se non contestualizzate. Questo non è un caso di abbandono, ma un caso di abbandono istituzionale. È la storia di una famiglia che ha già perso tutto una volta e che ora rischia di perdere anche ciò che aveva faticosamente ricostruito. Allontanare i figli, strappare una bambina di un anno dalle braccia della madre, ignorare il trauma, la lingua, le condizioni sanitarie e quelle psicologiche dei minori, non è tutela. È una ferita ulteriore, che si somma a quelle provocate dalla guerra. Il dolore non può essere archiviato in un fascicolo. Una famiglia non si misura solo con un metro burocratico. Serve umanità, ascolto e la capacità di leggere le complessità. Le istituzioni devono garantire protezione e non diventare la causa di nuovi traumi. La famiglia Martynenko-Tymoshchuk non chiede altro che vivere insieme, sotto un tetto dignitoso, lavorare e continuare a ricostruire il futuro. Non chiede carità, ma chiede giustizia. E il diritto a non essere dimenticata.
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