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Il carcere di Gianni Alemanno è lo specchio che l’Italia non vuole guardare.

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L’ingresso in carcere di Gianni Alemanno, ex sindaco della Capitale, non è solo una notizia di cronaca giudiziaria. È divenuto un fatto simbolico. È la crepa che si apre nella facciata della politica italiana, e al tempo stesso lo specchio doloroso di un sistema penitenziario che continua a punire senza rieducare, a marginalizzare e  senza ricostruire. Per la prima volta nella storia repubblicana, un ex sindaco di Roma varca la soglia di un carcere ordinario, finendo in una cella a Rebibbia, tra i detenuti comuni. Non più privilegi, scorte, auto blu. Ma spazi angusti, acqua calda a intermittenza, sovraffollamento, isolamento, pasti razionati e aria di cortile. È la realtà quotidiana di oltre 60.000 detenuti in Italia, il 133% in media della capienza regolamentare, con picchi come San Vittore, che sfiora il 200%, o Poggioreale, dove otto uomini dividono 20 metri quadrati. Eppure, finché dentro ci finiscono i “soliti”, i poveri, i tossicodipendenti, i migranti, i fragili senza voce, la questione carcere resta ai margini del dibattito pubblico. Ma quando a varcare quella soglia è un volto noto, un ex sindaco, un uomo delle istituzioni, allora quel muro si crepa. E si intravede cosa c’è dietro: una giustizia che non rieduca, un sistema che non rigenera. È il paradosso italiano: si parla di sicurezza, legalità, ordine, ma si dimentica che la vera sicurezza sociale nasce da un sistema che cura, non che distrugge. La Costituzione parla chiaro all’articolo 27: le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Ma in Italia la pena è ancora sinonimo di vendetta, privazione ed abbandono. Gianni Alemanno oggi sperimenta ciò che migliaia di persone vivono ogni giorno, senza processi mediatici, senza appelli pubblici, senza avvocati di grido, la vera invisibilità sociale del carcere. La stessa che colpisce chi esce da lì e non trova una casa, un lavoro, una seconda occasione. Il punto, però, non è difendere Alemanno. Il punto è chiedersi cosa ce ne facciamo di un sistema penale che non cambia le persone, ma le peggiora. Che cosa imparano i detenuti in celle dove non c’è spazio per muoversi, né opportunità per studiare o lavorare? Che messaggio riceve la società civile quando il carcere è solo un parcheggio del disagio? La vera rinascita non è uscire di prigione. È uscirne diversi, consapevoli, più umani. Ma per rendere possibile questa rinascita, serve uno Stato che creda davvero nella giustizia trasformativa, non solo nella punizione. Serve un carcere che accompagni, non che affossi. Servono investimenti in educazione, mediazione, reinserimento. Servono più assistenti sociali, psicologi, educatori e meno telecamere e sbarre. Il caso Alemanno non è un’eccezione: è un’occasione storica per rompere il silenzio attorno alle carceri italiane, per dare voce a chi vive dietro le sbarre e non ha gli strumenti per essere ascoltato. È ora che la politica smetta di usare il carcere come uno strumento di propaganda, e inizi a considerarlo un terreno decisivo della democrazia. Perché la civiltà di un Paese si misura da come tratta i suoi ultimi, e in Italia, i detenuti, colpevoli o incolpevoli che siano, continuano ad essere trattati come scarti umani. Ma ogni scarto è una persona, con una storia, una dignità e una possibilità di cambiamento. Anche per Gianni Alemanno ed anche chi Alemanno, fino a ieri, lo ha governato.

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