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Energia, guerra e ipocrisia: il paradosso del gas russo “riciclato” per l’Ucraina.

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L’Unione Europea, dopo l’ennesimo attacco russo, ha promesso di spezzare ogni legame energetico con Mosca. Ma i dati e i fatti raccontano una storia diversa, più sfumata e meno eroica. A due anni e mezzo dall’inizio della guerra, in Ucraina, una delle principali zone di battaglia, quello energetico, resta incerto, contraddittorio, ed in certi casi, persino paradossale. Tra questi, spicca quello che potremmo definire il circuito del gas russo “riciclato”: Ungheria e Slovacchia, pur criticate da Bruxelles per i loro legami con Gazprom, rivendono gas all’Ucraina, che lo riceve come se non fosse più russo e, invece, nella sostanza lo è. Peraltro, l’Ucraina interruppe gli acquisti diretti di gas da Mosca nel 2015, ma ha continuato ad approvvigionarsi tramite il cosiddetto reverse flow cioè è una pratica che consiste nel far rientrare gas in Ucraina da paesi europei confinanti. E formalmente, si tratta di gas europeo. Ma in realtà, è lo stesso gas russo, acquistato da intermediari europei. Perciò nel caso di Ungheria e Slovacchia, il flusso è chiaro: questi paesi ricevono regolarmente forniture russe attraverso contratti a lungo termine (molti dei quali firmati ben prima dell’invasione del 2022), ed una parte di questo gas viene poi venduta o scambiata all’Ucraina. Bruxelles condannò più volte Budapest e Bratislava per la loro dipendenza dal gas russo. Peraltro, la Commissione puntò il dito contro la mancanza di coerenza con le sanzioni e l’obiettivo di ridurre a zero l’importazione di energia russa. Eppure, nel contempo, accetta che quel gas serva a mantenere accese le centrali termiche ucraine, e anzi, spesso ne finanzia l’acquisto tramite fondi di assistenza. Il risultato è una contraddizione sistemica: l’UE rifiuta l’energia russa in nome dei principi, ma tollera ed in parte copre l’acquisto indiretto di quella stessa energia da parte del paese che sta cercando di salvare. Quello che si delinea è un classico caso di realismo politico travestito da idealismo normativo. Sul piano simbolico, l’UE ha scelto una linea dura contro la Russia, con l’obiettivo di “disintossicarsi” dal gas di Mosca. Ma sul piano pratico, la dipendenza strutturale dell’Europa orientale e la vulnerabilità energetica dell’Ucraina costringono i decisori politici a chiudere un occhio o entrambi. In alternativa o lasci Kiev al freddo, o la costringi a riaprire direttamente i rubinetti di Gazprom, perdendo completamente la faccia. Questo paradosso energetico non è un’anomalia: è un sintomo strutturale della fase attuale della guerra. La transizione energetica è reale, ma lenta e in tempo di guerra le priorità cambiano. Le infrastrutture esistenti non si modificano in pochi mesi; i contratti di fornitura non si cancellano senza conseguenze legali e geopolitiche; e l’Ucraina, pur eroica nella resistenza militare, resta dipendente dalle forniture europee e peraltro, in parte, dal gas russo. In definitiva, ciò che accade oggi tra Ungheria, Slovacchia, Ucraina e Russia è più di una stranezza burocratica: è la prova che la guerra energetica è fatta anche di compromessi, zone grigie e verità scomode. In una parola: realismo. Se l’Europa vuole davvero emanciparsi dal ricatto energetico russo, dovrà affrontare non solo le dipendenze tecnologiche, ma anche le sue stesse contraddizioni politiche.

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Economia - Gas russo · Politica

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