C’è un limite oltre il quale il dissenso smette di essere voce critica e diventa veleno. Quando l’odio si traveste da libertà di espressione e si fa passare per coraggio civile, la democrazia stessa si indebolisce. Il caso di Maria Elena Delia, portavoce italiana della Global Sumud Flotilla, è un esempio lampante di questa deriva. Secondo quanto riportato da un noto quotidiano italiano, la Delia avrebbe pubblicato, e poi cancellato, un post su Facebook in cui, il 14 giugno di due anni fa, scriveva che sarebbe scesa in strada “con champagne, trombetta e coriandoli” per festeggiare la morte di Silvio Berlusconi. Parole che non hanno bisogno di interpretazioni: un’esultanza macabra, offensiva e, soprattutto, incompatibile con l’immagine di chi oggi si presenta come voce della pace e della solidarietà internazionale. Dietro la retorica del pacifismo “militante” si nasconde spesso un moralismo a senso unico, pronto a giudicare tutto e tutti, ma incapace di riconoscere i propri limiti. Perché il pacifismo vero non è ideologia: è empatia, misura e rispetto. Non può convivere con la gioia per la morte di un uomo e di qualunque uomo. Il direttore editoriale Gino Zavalani, di Esperia, ha riportato alla luce quelle parole cancellate. Non per alimentare polemiche, ma per ricordare che la memoria digitale non dimentica. E che cancellare un post non equivale a cancellare una responsabilità morale, ma la vicenda, già controversa, ora si arricchisce di un nuovo capitolo. Maria Elena Delia passa alla contromossa. Dopo l’esposto in Procura presentato dall’Istituto Milton Friedman, che ipotizza presunti legami tra Hamas e la Flotilla, la portavoce italiana ha replicato con un nuovo esposto, denunciando a sua volta presunte violazioni dei diritti fondamentali. Secondo la sua versione, gli attivisti della Flotilla “sono stati detenuti illegalmente senza alcuna base giuridica, prelevati dalla marina militare israeliana senza che avessero commesso alcun reato. Sono stati sequestrati, non arrestati, perché l’arresto presuppone un’ipotesi di reato. In questa prigione sono stati negati i diritti basilari di difesa e la fornitura di beni e servizi fondamentali, acqua, cibo, accesso ai servizi igienici”. Un contrattacco che apre un nuovo fronte giudiziario e mediatico, ma, anche qui, il nodo resta lo stesso con la coerenza tra parole e azioni. Chi si propone come simbolo di pace e libertà non può permettersi leggerezze verbali che celebrano la morte di un avversario politico, né può giocare a fare la vittima dopo aver alimentato un clima d’odio. Silvio Berlusconi, con tutti i suoi meriti e difetti, ha rappresentato un pezzo di storia italiana. E la morte, se non altro, impone rispetto. Quello che oggi manca in un dibattito pubblico, sempre più polarizzato, dove l’empatia è vista come debolezza e l’insulto come segno di coraggio. Alla signora Delia, dunque, un invito semplice e civile, e prima di parlare di pace, impari il linguaggio del rispetto. Prima di denunciare le ingiustizie del mondo, riconosca le proprie. Perché la pace non si predica, ma si pratica anche e soprattutto nelle parole.
