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Pippo Baudo. Storia di un uomo che ha raccontato l’Italia prima che l’Italia si raccontasse da sola

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C’era una volta la televisione italiana, e non era solo bianco e nero. Era un palcoscenico sociale, uno specchio collettivo ed un rito domestico. E in quel palcoscenico, la figura di Pippo Baudo non era semplicemente centrale, ma era strutturale. Era la cerniera tra l’Italia che cercava di capire chi fosse e quella che imparava a vedersi in diretta nazionale. Negli anni ’60, l’Italia usciva da un dopoguerra che aveva lasciato macerie e silenzi, ma aveva fame di modernità, bellezza, leggerezza. E in quel vuoto culturale da riempire, Baudo non solo prende il microfono: prende il timone. Con un’educazione classica e una formazione giuridica, sceglie il mondo dello spettacolo non come scorciatoia al successo, ma come strumento pedagogico di massa. Da “Settevoci” fino ai fasti di “Domenica In” e “Fantastico”, Baudo non conduce: costruisce ambienti, seleziona talenti, scrive il copione dell’Italia che vuole credere in sé stessa. La sua figura ha qualcosa di paterno e senza mai risultare distante; è un’autorità riconosciuta non perché imposta, ma perché meritata. Sa ascoltare, sa valorizzare, sa correggere in diretta senza umiliare. E nel frattempo, lancia carriere: Milva, Oxa, Parisi, Cuccarini, Bocelli, Pausini, Grillo, e una lista che sembra non finire mai. Non è solo un presentatore, è un sistema culturale in movimento. C’è qualcosa di profondamente italiano in Pippo Baudo e non l’Italia degli slogan, ma quella dei compromessi costruttivi, dell’arte che incontra l’artigianato e del talento che emerge anche senza clamore. Quando nel pieno degli anni ’90 sperimenta una breve fuga su Mediaset, il pubblico si accorge che Baudo non è un semplice volto, ma una grammatica. La grammatica della RAI, certo, ma anche della televisione come forma di comunità. Il suo legame con il Festival di Sanremo, 13 edizioni da conduttore, 7 da direttore artistico, è più di un record, è la metafora della sua carriera. Baudo prende una kermesse spesso kitsch e la rende, anno dopo anno, un termometro sociale, un momento di autocoscienza nazionale, dove si ascoltano canzoni, ma si leggono anche i desideri e i limiti del Paese. La forza di Pippo Baudo non è stata mai l’ego, pur presente, ma la capacità di non oscurare ciò che mostrava. Un talento rarissimo, soprattutto in un’epoca in cui la visibilità è tutto e il contenuto viene dopo. Il suo stile non era neutrale, ma funzionale e, peraltro, una TV che non aveva bisogno di urlare per farsi ascoltare, né di scandalizzare per ottenere attenzione. Oggi, quando la televisione italiana rincorre il digitale, i trend e le mode a breve scadenza, la figura di Baudo resta come un monolite tranquillo, silenziosamente ingombrante. Non per nostalgia, ma per confronto. Perché nella sua lunga parabola professionale, iniziata oltre 60 anni fa, Pippo Baudo ha incarnato un’idea chiara perché la televisione possa educare senza annoiare, intrattenere senza svendere ed innovare senza distruggere. E forse la sua lezione più grande è proprio questa, Pippo Baudo non è stato importante perché era in televisione. È stato importante per come era nel palcoscenico televisivo.

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