L’episodio che ha visto i Giovani Democratici di Viterbo rivolgere l’espressione “ci fai schifo” a un ministro della Repubblica rappresenta un preoccupante scivolamento culturale e politico, tanto più grave in quanto arriva dalle nuove generazioni di un partito che si autodefinisce progressista e istituzionale. Che un gruppo giovanile, legato formalmente a un partito che pretende di rappresentare l’alternativa democratica del Paese, adotti un linguaggio da sottoscala, offensivo, e sostanzialmente privo di contenuto argomentativo, dovrebbe sollevare interrogativi ben più profondi della semplice polemica del giorno. Non si tratta, infatti, solo di una caduta di stile, già inaccettabile, ma del segno tangibile di un fallimento formativo. Il Partito Democratico, che ama ergersi a custode della civiltà politica, della correttezza istituzionale e del dialogo repubblicano, si trova ora di fronte a un bivio: continuare a chiudere un occhio sulle derive verbali dei suoi giovani militanti, o avviare una seria riflessione sul vuoto etico e politico che traspare da certi comportamenti. È ormai evidente che a molti dei giovani democratici non è stato insegnato il senso del limite, la responsabilità del linguaggio, il valore della critica costruttiva. La frase in questione, “ci fai schifo”, non è solo un insulto volgare, ma la manifestazione di un infantilismo politico che squalifica chi lo pronuncia ben più di chi ne è destinatario. Si potrà non condividere le scelte di un ministro, anche criticarle duramente, ma è il sale della democrazia, mai confondere l’antagonismo con la violenza verbale, è un segnale pericoloso. È un linguaggio che ricorda gli estremismi, le curve più becere dello stadio, non certo una giovanile che aspira a formare la futura classe dirigente. E proprio per questo l’imbarazzato silenzio della dirigenza del PD su quanto accaduto a Viterbo suona come una tacita complicità. Se, davvero, il Partito Democratico intende ancora essere un partito di governo, credibile e autorevole, dovrebbe, anzitutto, condannare senza ambiguità simili episodi, e attivare percorsi formativi seri all’interno delle proprie articolazioni giovanili, affinché imparino a distinguere tra dissenso e insulti, tra protesta e maleducazione. Al contrario, si ha la sensazione che un certo giustificazionismo interno abbia ormai contaminato il discorso pubblico progressista, sostituendo il confronto con lo sfogo e il ragionamento con lo slogan. In un contesto storico in cui la politica dovrebbe offrire esempi, senso delle istituzioni e visione, l’episodio di Viterbo denuncia un’involuzione preoccupante. Forza Italia, da parte sua, continua a credere nella formazione delle nuove generazioni come fondamento di una società più equilibrata, responsabile e civile. I nostri giovani imparano a misurare le parole, a discutere con argomenti, non a lanciare insulti come palloni avvelenati. Perché la buona politica si costruisce anche, e soprattutto, dal modo in cui si parla dell’avversario. Ci auguriamo che anche nel Partito Democratico qualcuno abbia il coraggio di ammettere che l’insulto non è mai un’opinione e che la semplificazione ideologica, se alimentata, diventa una scorciatoia verso l’irrilevanza politica. La decadenza non si misura solo nei voti, ma anche nella qualità delle parole. E da quelle usate dai Giovani Democratici di Viterbo emerge un segnale allarmante che non può più essere ignorato.
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