Nel mezzo di una delle crisi umanitarie più gravi del nostro tempo, mentre la carestia avanza e i bambini muoiono per mancanza di cibo e cure, il governo israeliano ha scelto di rispondere non con un corridoio umanitario, ma con una campagna social. Dieci influencer, americani e israeliani, selezionati per la loro audience e affiliazione ideologica, sono stati accompagnati in un breve tour all’interno della Striscia di Gaza, con l’obiettivo dichiarato di “rivelare la verità” su ciò che accade realmente, contrastando quella che viene definita dal governo israeliano “la campagna della fame orchestrata da Hamas”. Questo evento, raccontato dal quotidiano Haaretz, rivela molto più di quanto vorrebbe mostrare. Che Israele stia investendo decine di migliaia di dollari per portare influencer in una zona di guerra dice molto sulla priorità strategica che lo Stato ebraico attribuisce alla battaglia per la narrazione. In un contesto dove l’indignazione internazionale cresce a causa delle centinaia di morti per fame, delle denunce delle Nazioni Unite e delle ONG, delle immagini strazianti di bambini scheletrici e madri che cercano disperatamente aiuto, la scelta di mettere in scena un tour mediatico appare come un tentativo disperato, e profondamente cinico, di reindirizzare l’attenzione. Non verso i bisogni dei civili, ma verso il controllo del messaggio. Il contenuto dei post pubblicati dagli influencer conferma questa impressione con video di bancali pieni di aiuti, accuse all’UNRWA di aver consegnato il cibo ai “terroristi” e critiche urlate agli operatori dell’ONU filmate con tono sprezzante. La fame, in queste narrazioni, non è una tragedia collettiva, ma un problema di gestione locale, una conseguenza collaterale delle azioni di Hamas, mentre Israele si propone come vittima di una campagna diffamatoria. Ma questa rappresentazione cozza frontalmente con i dati diffusi da fonti indipendenti. Secondo l’ONU, più di 500.000 persone nella Striscia di Gaza si trovano in condizioni di fame catastrofica. Il Programma Alimentare Mondiale (WFP) e l’OMS hanno confermato che oltre il 30% dei bambini sotto i 5 anni nel nord di Gaza soffrono di malnutrizione acuta. Intere famiglie vivono ormai sotto tende, senza accesso ad acqua potabile e con il sistema sanitario al collasso. E le responsabilità non sono vaghe né ipotetiche. Le stesse agenzie delle Nazioni Unite hanno accusato le autorità israeliane di bloccare sistematicamente l’ingresso degli aiuti, di colpire infrastrutture civili, e di impedire alle ONG di operare in sicurezza. Non si tratta, peraltro, di una “verità alternativa” da bilanciare con un’altra opinione, ma si tratta di fatti documentati e su cui convergono decine di fonti indipendenti. Questa visita guidata, durata poche ore, orchestrata dal Ministero per gli Affari della Diaspora, non può in alcun modo rappresentare una verifica della situazione sul campo. Gli influencer non hanno visitato ospedali, né rifugi sovraffollati. Non hanno parlato con medici, né con famiglie palestinesi che sopravvivono a malapena giorno dopo giorno. Sono stati portati in zone prestabilite, mostrati depositi organizzati, forse persino messi in scena. E poi sono tornati a raccontare ai loro milioni di follower che “Israele non è responsabile della fame”. Il problema non è solo la falsità implicita di questo messaggio, ma l’asimmetria di accesso e di voce. Mentre i civili palestinesi non hanno possibilità di raccontare la propria esperienza, mentre i giornalisti indipendenti non possono entrare liberamente nella Striscia, e gli operatori umanitari vengono ridotti al silenzio, si autorizza, invece, un gruppo selezionato e favorevole ad Israele a fare da cassa di risonanza globale. È l’apice di una strategia che trasforma la verità in un campo di battaglia e le vite umane in strumenti narrativi. Siamo in un’epoca in cui l’informazione viaggia più velocemente dei fatti. Dove un video da 60 secondi su TikTok può spazzare via anni di documentazione di Human Rights Watch, Amnesty International o del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU. Malgrado ciò non significa che le cose smettano di accadere perchè i bambini continuano a morire, le ambulanze restano ferme perché prive di carburante, i forni non possono più cuocere il pane e perciò i palestinesi, donne, uomini, anziani e neonati, continuano a soffrire. La verità di Gaza non è quella degli influencer e nemmeno quella degli hashtag. La verità è nei corpi disidratati, negli ospedali vuoti, nei silenzi di chi ha perso tutto. Purtroppo, la verità è cruda, dolorosa, senza filtri e senza coreografia. E, peraltro, ogni tentativo di ridurla a una campagna di Pubbliche Relazioni, per quanto ben confezionata, non farà altro che aggravare la distanza tra la realtà e l’immagine che il Mondo preferisce vedere.